martedì 31 marzo 2009

Tre domande a Fabrizio Musa


Da un anno lavora con l’architetto svizzero Mario Botta, partendo dalle sue forme essenziali e affrontando un percorso verso la pulizia assoluta dell’immagine e l’esaltazione degli effetti luce-ombra. Il percorso di Fabrizio Musa, artista comasco, passa attraverso il razionalismo e la riscoperta dell'essenzialità della forma.

Come è nata la collaborazione con Mario Botta?
Un anno fa abbiamo scelto insieme quaranta edifici realizzati in tutto il mondo, da Tokio, agli Stati Uniti, fino al Mart di Rovereto, ma anche piccole opere come la chiesetta di Mogna. E' una ricerca sugli edifici a partire dalle piante, dalle bozze di progettazione, comprese quelle scartate o le pre-variazioni. Osservo l'intervento della luce, la struttura, i materiali utilizzati, attraverso le diverse visioni che mi derivano dal confronto tra più studi realizzati prima di arrivare alla mia interpretazione e quindi alla versione finale. Tutto questo diventerà una mostra nel 2010 a Milano.
Questo si può considerare un processo inverso rispetto a quello dell'architetto? Lui riempie il vuoto costruendo una forma, tu torni verso il vuoto destrutturando questa forma.
Si esatto. Il messaggio finale delle mie opere sta in un ritorno verso lo spazio vuoto, ed è il percorso esattamente contrario rispetto alla progettazione. Questo permette di vedere come interagisce la luce su determinati materiali o forme.
Continuando a stilizzare la forma, dove si arriva?
Non ho un'idea precisa del mio obiettivo. Sono certo che la partenza sta in un allontanamento dalla pura riproduzione, ma già questa è filtrata dal punto di vista fotografico che mi attira e che scelgo, e da qui si procede verso una sintesi della struttura. Mi piace l'idea di lavorare su immagini sempre più concettuali, partendo dalle strutture architettoniche come base.

Fabrizio Musa work in progress wall paint. Torino, Santo Volto, giugno 2008. Qui

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