domenica 1 novembre 2009

Alessandro Perissinotto, Per vendetta


"Se ancora avessi una coscienza, mi sentirei in colpa per quanto è accaduto a Efrem. Se avessi una coscienza direi che faccio tutto questo per riconciliarmi con lei. Tutto questo scrivere, questo andare in giro a domandare, questo ricostruire storie". Il distacco dalla narrativa di genere di Alessandro Perissinotto inizia con questo, l'incipit di Per vendetta (Rizzoli, 245 pagg., 17.50 euro), nuovo e appassionato romanzo dello scrittore torinese. Scrittura di alto livello, personaggi costruiti con grande attenzione, scrupolosa articolazione della trama: caratteristiche che mai hanno abbandonato il senso dello scrivere di Perissinotto, dai primi tre titoli dai retaggi storici, fino alle storie del suo personaggio seriale, la psicologa-investigatrice Anna Pavesi, il cui spunto partiva sempre da una curiosità da approfondire, un dettaglio che passa quasi inosservato nel nostro vivere quotidiano e anestetizzato, ma che da qualche parte genera guadagni, traffici illeciti, storie sotterranee da tenere nascoste. In questo Perissinotto non si smentisce nemmeno abbandonando il genere, mentre si misura con una pagina di storia ancora oggi difficile da accettare, fortemente e inutilmente sanguinosa, sgradevole nelle sue implicazioni anche più remote. Si parla di Argentina, di fili sottili e forti che uniscono i destini suoi e dell'Italia, di storie la cui distanza geografica si azzera mentre ci si cala nel loro dramma e nella grande empatia che ancora oggi possono suscitare.

Innanzi tutto, perché questo abbandono del giallo e qual è l’elemento psicologico che trascina il lettore in Per vendetta?
Io credo che le trame poliziesche siano un ottimo strumento per raccontare la realtà, ma, proprio per far sì che il giallo continui ad avere una dignità letteraria, le trame non si possono piegare a qualsiasi esigenza, non si possono usare come semplice pretesto per raccontare altro. Ecco, la storia di Per vendetta non avrebbe potuto porsi in forma di indagine poliziesca, perché i crimini della dittatura argentina sono già stati scoperti dalla Storia. Occorreva quindi che il lettore trovasse il motivo trainante della lettura non nella scoperta del colpevole, ma nella graduale scoperta del vortice di dolore e di follia in cui può essere trascinata la vittima che si vede umiliata dai potenti. Quello che racconto è un caso emblematico, ma potrebbe applicarsi credo alla maggior parte delle persone che, in Argentina, hanno visto i torturatori dei loro cari uscire impuniti dai molti processi farsa che si sono tenuti contro i responsabili della dittatura.

La vendetta è il tema di fondo di questo tuo romanzo, come “consolazione dell’innocente davanti alla mostruosità del potere”. Ma dove stanno i confini gestibili dall’individuo di questo sentimento così pericoloso?
Non esistono confini gestibili dall’individuo. Il romanzo non è un elogio della vendetta, ma una denuncia del rischio che si corre (quello della vendetta appunto) imboccando con troppa facilità la comoda strada del perdono. Troppo spesso si dimentica che la punizione non è solo un modo per redimere i colpevoli, ma è anche un modo per dare consolazione alle vittime. L’assenza di punizioni suscita nel giusto un sentimento di impotenza e di offesa, che sfocia talvolta nella violenza. Talvolta gli Stati sembrano dimenticarsi delle vittime per dedicarsi al recupero dei carnefici, recupero che nel caso dei torturatori argentini appare molto difficile quando non impossibile. La Chiesa cattolica non ha mai chiesto perdono per la sua collaborazione con i dittatori e i vescovi argentini, anche dopo che erano state scoperte le crudeltà della giunta militare, hanno continuato a fare affermazioni a sostegno dei torturatori. La Chiesa cattolica è un'associazione a delinquere che andrebbe messa sotto processo per crimini contro l’umanità. Questo è il senso di Per vendetta.

Viene prima la storia, la scrittura o il tema di partenza, in quest’ultimo lavoro e in generale nel tuo modo di avvicinarti alla narrativa?
Le mie storie nascono sempre da un tema che mi è caro e da uno spunto occasionale. In questo caso era quello della repressione in America del Sud, uno dei primi temi politici ai quali, per ragioni anagrafiche, sono legato: la fine della dittatura argentina coincise con il mio primo periodo di impegno politico. Lo spunto occasionale fu invece un manifesto, che compare anche nel booktrailer del libro, che vidi per le vie di Buenos Aires: ritraeva uno dei delatori del regime, uno di quelli che erano rimasti impuniti e ne indicava l’attuale residenza, come a volerlo additare al pubblico disprezzo. Quel manifesto mi ha dato l’idea per questo romanzo sulle ferite aperte in Argentina.


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