La sua scrittura è passione, volontà di trovare la logica degli accadimenti, portare a galla quello a cui nemmeno le cronache riescono ad arrivare. Un incendio in una fabbrica che nasconde la pirateria finanziaria ad altissimi livelli, gli intrecci sotterranei tra economia e politica internazionale del governo francese, l’immigrazione e lo sfruttamento nei quartieri periferici di Parigi, raccontati prima che avvenissero le rivolte. Dominique Manotti, ex sindacalista, ex docente universitaria, sceglie un contesto da indagare, con il suo piglio storico nella ricerca e noiristico nello stile, e poi va a fondo. La speculazione finanziaria e le scommesse sui cavalli, il mondo del calcio, il doping e il riciclaggio di denaro. Nel complesso, uno spaccato trasversale e mai buonista della società (che parte dagli anni Ottanta e poi va oltre), dipinto con un distacco costante, che le permette di non affezionarsi nemmeno ai suoi protagonisti. L’ultimo romanzo pubblicato in Italia da Marco Tropea, come tutti i precedenti, è Vite Bruciate (pagg. 283, 16.60 euro). Lo hanno preceduto Il sentiero della speranza (pagg. 320, 12 euro), Il bicchiere della staffa (pagg.256, 12 euro), Curva nord (pag. 187, 14 euro) e Le mani su Parigi (pagg. 221, 12.90 euro). A gennaio uscirà il suo nuovo romanzo.
Cosa fa scattare lo spunto per una storia e come viene portato avanti?
La mia formazione di storico conta molto, studio anche per un anno prima di iniziare a scrivere: i personaggi nascono in questo periodo di ricerca, e solo a quel punto lascio il metodo storico e penso ai protagonisti, che sono tutti immaginari, mai ispirati a persone reali. Scrivere per me è molto faticoso e ossessivo, impiego un altro anno dopo la fase di documentazione. Per Vite bruciate ho iniziato le ricerche nel ’96, ma lo spunto iniziale del romanzo è stata la consapevolezza che in quell’azienda facevano molte truffe. Nel 2003 c’è stato un incendio, per il quale è stato arrestato un giovane marocchino. A quel punto mi sono detta che dovevo andare a vedere cosa stava succedendo. Sono andata nella Loira e mi sono trovata davanti a un paesaggio magico: quello è stato il punto di inizio del storia. La vicenda a cui si allaccia è l’acquisto di una fabbrica nel 1986, la Daewoo-Thompson, utile ai giochi della finanza. C’è un forte intreccio con la vita politica della Francia, ma tutto parte dal licenziamento di un’operaia, e dall’occupazione della fabbrica da parte degli altri lavoratori. Poi si sviluppa un incendio e si cerca un colpevole. E’ una storia di operai e di lotte, anche se sulla classe operaia ho uno sguardo poco paternalista. In questo libro ho voluto far incontrare due mondi che non si sfiorano mai, e qui diventa fondamentale la mia formazione di sindacalista.
Perché è scomparso Daquin, protagonista dei primi romanzi?
Ho abbandonato il commissario Daquin perché non mi piace identificarmi con i miei personaggi, voglio sempre mantenere le distanze. Loro non sono mai presi dalla realtà, solo i fatti all’interno dei quali si muovono sono veri. Ho un legame costante con loro mentre li creo, giorno e notte. Se si scrive troppo di loro, inevitabilmente ci si avvicina, diventano familiari, e io non voglio avere nessun coinvolgimento. Inoltre queste figure di poliziotto non esistono più nella polizia di oggi, stanno più alla scrivania e poco sulla strada. I personaggi devono essere costruiti assieme alle loro situazioni, e Daquin è nato assieme a un quartiere molto violento, appartiene a un’epoca e alle sue regole. E’ un misto di seduzione e brutalità, come lui. In un romanzo il personaggio deve costruire l’ambiente, vivere e seguire la storia del libro: il lettore partecipa a questo sviluppo, e cambia assieme a lui. La sua verità sta nella capacità di essere la manifestazione di una situazione reale, non nel suo essere seriale. Costruire personaggi basati sulla forza della fiction: questo è importante nel romanzo. Del resto i lettori non cercano storie che li rassicurino, ma personaggi che li rassicurino. Così i miei personaggi non sono mai buoni o cattivi, perché le mie non sono storie di bene o di male: è sempre tutto molto complesso e articolato di volta in volta.
Sindacalismo, insegnamento universitario e poi narrativa: cosa lega questi passaggi?
Ho iniziato a scrivere fiction per disperazione, a 50 anni. Ho fatto la sindacalista a lungo, e la ricerca storica mi appassionava molto, e mi aiutava nel mio lavoro. Quando ho lasciato il sindacato, nell’83, non ho più avuto la possibilità di cercare nella storia una utilità, come facevo per il mio lavoro, e poco alla volta sono rimasta senza motivazioni. Sono passati otto anni senza che scrivessi nulla, finché un giorno ho preso L.A.Confidential di James Ellroy, ed è stato uno choc. Ho letto tutto quello che aveva scritto, e quando sono arrivata all’ultima pagina dell’ultimo libro, mi sono detta che se lui era in grado di scrivere cose così potenti, allora valeva la pena di provarci. Scrivere fiction è più difficile che scrivere storia: la storia devi trovarla, ma esiste. Per la fiction non è così. Inoltre ho scelto il polar perché non volevo fare passi indietro rispetto alla realtà che avevo vissuto. Ancora oggi i ricordi che più mi hanno impressionata e colpita, sono materia fondamentale dei miei romanzi.
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