Nella foto: mezzo chilo di cocaina e un chilo di marijuana
Si è portato dietro il rancore, soprattutto, ma anche un passato dal quale non riesce a scollarsi, come se il divenire del tempo e delle cose fosse una colpa. E' tornato da Amsterdam per ritrovare una Milano destinata a deluderlo, e ad alimentare la sua distanza. Mentale, soprattutto. Davide Smalley è una creatura di Matteo Di Giulio, protagonista del suo secondo romanzo, Quello che brucia non ritorna (Agenzia X, 223 pagg., 15 euro). Arriva da un'epoca carica, esasperata, priva di leggerezza, dove la superficie non aveva spazio. Erano gli anni Novanta delle controculture, delle periferie, della voglia di lanciare messaggi. L'indagine che lo obbliga al ritorno sarà molto di più di una rincorsa di una giustizia nella quale non crede. E' un'immersione nel passato, un confronto perdente con l'idealismo, la perdita delle tracce che lo legano al suo vissuto.
Perché “romanzo hardcore”?
Perché il mondo di Quello che brucia non ritorna è un sottobosco musicale dove il genere predominante è l'hardcore/punk di metà anni Novanta. Ma hardcore per me significa anche rabbia grezza, velocità, sincerità, senza filtri, ed è il sinonimo ideale per un romanzo dove nostalgia e vendetta vanno a braccetto. Smalley si aggrappa alla ricerca degli ideali, o presunti tali, di un’epoca che nel frattempo si è evoluta.
Cosa impedisce a Smalley di adattarsi al piano di realtà che lo circonda e di cercare altri punti di riferimento?
Smalley è un controsenso. Ha vissuto un'epoca di petto ma pur sempre nell'ombra del suo miglior amico, il vero leader. Vive di dubbi, era in un certo senso un emarginato allora, e lo è ancor di più oggi, perché annaspa nei ricordi, nei rimpianti, ha troppi conti in sospeso, con se stesso e con la sfortuna, per poter capire dove andare. Il suo viaggio, il ritorno a casa dopo dodici anni passati da esule, potrebbe servirgli come catarsi. Ritrovare il suo passato è un modo per ripensare il suo futuro, liberarsi da quei fantasmi che lo tormentano continuamente. Finché Smalley non scrosta la maschera del ragazzo ribelle che era, non ha possibilità di affrancarsi da un peso spirituale e generazionale che si è autoimposto.
Cosa ti ha colpito maggiormente di quell’epoca che racconti?
La voglia di comunicare, la capacità di non fermarsi di fronte a ostacoli spesso ostici, l'unione. Paradossalmente oggi che abbiamo internet, i voli low cost, la televisione via satellite, il mondo sembra più frammentario, più disgregato. Allora si dovevano fare salti mortali per stringere legami, si usavano carta, penna e francobolli, non c'erano i telefoni cellulari, eppure si rimaneva in contatto in maniera più solida. Ogni occasione era preziosa per creare opportunità, a tutti i livelli, sia per divertirsi che per intraprendere sentieri sociali, culturali o politici. Oggi è tutto più omologato, si preferisce seguire binari già tracciati dall'alto. E questo secondo me è un vero peccato visto quanto sarebbe facile oltrepassare tanti limiti.
Perché il mondo di Quello che brucia non ritorna è un sottobosco musicale dove il genere predominante è l'hardcore/punk di metà anni Novanta. Ma hardcore per me significa anche rabbia grezza, velocità, sincerità, senza filtri, ed è il sinonimo ideale per un romanzo dove nostalgia e vendetta vanno a braccetto. Smalley si aggrappa alla ricerca degli ideali, o presunti tali, di un’epoca che nel frattempo si è evoluta.
Cosa impedisce a Smalley di adattarsi al piano di realtà che lo circonda e di cercare altri punti di riferimento?
Smalley è un controsenso. Ha vissuto un'epoca di petto ma pur sempre nell'ombra del suo miglior amico, il vero leader. Vive di dubbi, era in un certo senso un emarginato allora, e lo è ancor di più oggi, perché annaspa nei ricordi, nei rimpianti, ha troppi conti in sospeso, con se stesso e con la sfortuna, per poter capire dove andare. Il suo viaggio, il ritorno a casa dopo dodici anni passati da esule, potrebbe servirgli come catarsi. Ritrovare il suo passato è un modo per ripensare il suo futuro, liberarsi da quei fantasmi che lo tormentano continuamente. Finché Smalley non scrosta la maschera del ragazzo ribelle che era, non ha possibilità di affrancarsi da un peso spirituale e generazionale che si è autoimposto.
Cosa ti ha colpito maggiormente di quell’epoca che racconti?
La voglia di comunicare, la capacità di non fermarsi di fronte a ostacoli spesso ostici, l'unione. Paradossalmente oggi che abbiamo internet, i voli low cost, la televisione via satellite, il mondo sembra più frammentario, più disgregato. Allora si dovevano fare salti mortali per stringere legami, si usavano carta, penna e francobolli, non c'erano i telefoni cellulari, eppure si rimaneva in contatto in maniera più solida. Ogni occasione era preziosa per creare opportunità, a tutti i livelli, sia per divertirsi che per intraprendere sentieri sociali, culturali o politici. Oggi è tutto più omologato, si preferisce seguire binari già tracciati dall'alto. E questo secondo me è un vero peccato visto quanto sarebbe facile oltrepassare tanti limiti.
ma che foto è !
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