lunedì 31 maggio 2010

Stefano Carnazzi, 100 domande sul cibo


Anche ai più attenti, c'è sempre qualcosa che è sfuggito. Che non sapevano. O che non avevano considerato dal quel punto di vista. La sorpresa che finisce dentro il piatto, capace di passare indenne la spesa fatta a raggi x, di camuffarsi nelle etichette passate millimetricamente in rassegna alla caccia dell'ingrediente infido, di dribblare la messa al bando delle produzioni ingiuste e dannose, dello sfruttamento degli animali. Quando si parla di cibo non si finisce mai di imparare, ma soprattutto non si è mai al sicuro. Tranne in un caso, forse: il cioccolato. L'alimento più pulito, meno alterabile, più basico e sano che la nostra catena produttiva sia in grado di proporci. A volte anche etico, se proveniente dal mercato equo solidale. Stefano Carnazzi ne sa qualcosa. Da anni si occupa di cibo, con il metodo di indagine del giornalista e la capacità di andare a fondo dell'appassionato. L'ultimo suo libro, 100 domande sul cibo. Manuale di sopravvivenza tra il supermercato e la tavola (Edizioni Ambiente, 181 pagg., 12 euro) è un breviario, un manuale in cui immergersi, lasciandosi sorprendere ma anche fortificandosi. Lo scudo con cui fare slalom tra le corsie del supermercato. Giusto per sapere quante merendine è il caso di mangiare ogni giorno, quanto sono pregiati i gamberetti, con cosa è composto l'innocuo dado da brodo, quali coloranti sono fatti con gli insetti e quanto pesa davvero una bistecca. E altre 95 curiosità vaganti nel mondo del cibo.

Perché queste cento domande e non altre?
Sono le curiosità che hanno sollevato più attenzione negli ultimi anni. Questo libro è la prosecuzione del mio precedente, Quattro sberle in padella, partito da una analisi contro la produzione industriale dedicata soprattutto all’alimentazione dei bambini. Dieci anni fa era basata sugli zuccheri e sui coloranti artificiali: i primi generano picchi glicemici, gli altri sono la causa di allergie ed altri effetti collaterali. Il risultato era un valore nutritivo pari a zero, ma molti potenziali danni. Inoltre erano prodotti che al supermercato stavano vicini alle casse, e questo mi infastidiva molto. In questi dieci anni l’industria alimentare ha studiato molte alternative apprezzabili, senza ricorrere alla chimica. Nonostante questo trovo che la produzione alimentare, dal punto di vista qualitativo, sia ancora molto indietro: vedo molte operazioni di cosmesi, ma il risultato non migliora, e non riesco ad essere ottimista. I segnali sono negativi: aumentano i pesticidi, non diminuiscono gli ogm.

Perché la televisione fa ingrassare?
Innanzi tutto per un motivo fisico, sul quale sono stati fatti interessanti studi: è uno stato di ricezione passiva che spegne il cervello. Guardando la tv si consumano quasi le stesse calorie che durante il sonno, quindi quasi zero. Inoltre ci si trova davanti a una concentrazione di spot che promuovono prodotti alimentari non sani, soprattutto negli orari di massimo ascolto, il cui risultato è l’invito a consumare un cibo squilibrato. Negli alimenti protagonisti delle pubblicità televisive, c’è una media del 40 per cento di zuccheri, olio e grassi. Non si sono mai viste pubblicità di frutta e verdura bio.

Tu dove fai la spesa?
Al supermercato, ma scegliendo catene della grande distribuzione che hanno dimostrato attenzione verso il biologico e l’equosolidale, come la Coop e L'Esselunga. Sono anche grossi marchi, non solo negozi di nicchia. Alcuni hanno investito molto in questo senso, dimostrando rispetto per le esigenze dei consumatori. In dieci anni è cambiato molto, e oggi poter esibire una produzione pulita è motivo di orgoglio.


domenica 30 maggio 2010

Lella Costa a Duemiladieci


Carpineti-Reggio Emilia, terre di Matilde di Canossa, giornata d'esordio della prima edizione del festival Duemiladieci. Lella Costa, intervistata da Elisabetta Bucciarelli, si racconta attraverso il teatro, l'ironia, la televisione, la famiglia, qualche rammarico per una città, Milano, che meriterebbe qualcosa in più. Il suo ultimo libro, La sindrome di Gertrude (Rizzoli, 246 pagg., 18.50 euro) è "quasi" un'autobiografia: racconta e divaga, non sceglie la strada della scansione cronologica a ogni costo, ma piuttosto quella di un affresco fatto di luoghi, persone, episodi. Di passioni e di abiti, quelli di Antonio Marras, lo stilista che da anni la avvolge in tessuti impalpabili e colori morbidi. La sindrome di Gertrude "colpisce soprattutto le donne - sostiene Lella Costa - ed è quel meccanismo che ti spinge a dire di sì anche quando sarebbe stato meglio fare il contrario. E' una tendenza compulsiva e a tratti patologica che impedisce di valutare con attenzione le conseguenze. Non comporta necessariamente sventura, ma qualche volta forti ripensamenti". La conversazione, spazia e si allarga, il teatro prende la forma dei libri che sono, inevitabilmente, una sintesi e una suggestione di ciò che da anni avviene sul palco. Come Amleto, Alice e La Traviata (Feltrinelli, 189 pagg., 8 euro), spettacoli replicati centinaia di volte nei teatri di tutta Italia. 

Perché la scelta di un teatro di narrazione, unica donna in Italia a percorrere questa strada?
Oggi ha una funzione che va al di là di ciò che si era pensato e voluto. C'è qualcosa che non va in un paese in cui la memoria del fatti storici e tragici è affidata ai comici, e dove attori, scrittori giornalisti hanno coperto un vuoto: io sono molto fiera di poter fare questo. Tempo fa mi hanno chiesto di fare un intervento in occasione dell'anniversario dello sbarco sulla Luna, nel 1969, e mi sono resa conto di non ricordare quasi nulla di quel momento, ma di avere un ricordo molto vivo della strage di piazza Fontana, avvenuta quello stesso anno. Oggi il dramma è che ci siamo abituati a tutto, anche a meccanismi agghiaccianti come quello che ci spinge a considerare meno grave di altre una strage che ha prodotto pochi morti. 

Qual è l'importanza della parola in questo momento? 
C'è una svendita dei significati delle parole. Abbiamo peccato di superficialità e prodotto una caduta dell'attenzione, al punto che certe espressioni fondanti del linguaggio sono diventate titoli di trasmissioni televisive, trasformate in slogan e private del loro senso originario. Tendiamo sempre di più a dare valenze gergali a ciò che diciamo, usiamo i termini in modo approssimativo, ma quando ti trovi in situazioni in cui tutto il resto non esiste, come il carcere, capisci che è l'unico strumento importante che ti rimane, e che devi trattarlo bene. Da questo punto di vista, il contatto con i detenuti e con la loro privazione della libertà, mi ha fatto riflettere molto. Sono situazioni in cui impari che ogni parola deve avere un significato preciso, esattamente il suo e non un altro, senza sbavature, incomprensioni o possibilità di fraintendimenti. Questo, però, non ha a che fare con il fatto che non scrivo narrativa: il motivo, in questo caso, è che sono convinta che non si possano ormai più inventare nuove trame. E' bastato un personaggio come Shakespeare a raccontare tutto quello che serve. Io ho bisogno di qualcosa che duri di più rispetto all'attualità: i classici sono questo. Quando leggi le loro strie, capisci che c'è qualcosa che ti riguarda e ti viene voglia di raccontarlo. Allo stesso tempo ti accorgi che nessuno li conosce davvero, e tu stessa scopri cose che non sapevi: Amleto per me è stato questo. 

Come si fa oggi ad allenare l'ironia?
Si fa fatica, soprattutto di questi tempi. L'ironia è l'attitudine che ti permette di cambiare il tuo punto di vista sulle cose. Se sai che non puoi cambiare le situazioni, almeno cerchi di avere uno sguardo diverso. Soprattutto è un modo per essere un po' meno concentrati su se stessi. Io amo molto l'autoironia, mi ci metto sempre per prima nelle cose che racconto. Una parte del senso dell'umorismo, quello più lieve e sobrio, mi arriva da Milano, dal suo saper essere città dalle bellezze nascoste con una sua discrezione, ma con molta forza. 


venerdì 28 maggio 2010

Craig Silvey, Jasper Jones


Australia, fine anni Sessanta, un ragazzino di tredici anni che ama le parole e i libri di Mark Twain, con una famiglia che ancora non sa di essere in un equilibrio precario. La notte in cui Jasper Jones bussa alla sua finestra e gli chiede aiuto, per Charlie segna il passaggio verso l'età adulta, perché da quel momento niente sarà più come prima. C'è una ragazzina morta appesa a un albero, e distanze incolmabili con cui misurarsi. Quella della paura e del coraggio, della capacità di tenere un segreto, del valore delle cose che accadono. Della percezione della solitudine, che diventa la distanza tra prima e dopo. Lo scrittore australiano Craig Silvey, in Jasper Jones (Giano, 332 pagg., 16.50 euro) si allontana quasi subito dal personaggio che dà il titolo al libro, quel Jasper Jones selvaggio, senza famiglia e senza istruzione, che catalizza le colpe di un'intera comunità. In tutto il romanzo compare e scompare, aleggia, scatena gli accadimenti, ma il protagonismo è per Charlie. Insieme vogliono capire chi ha ucciso Laura, ma c'è anche altro da scoprire nel loro mondo. La violenza fisica e gratuita, mista a razzismo, che esplode dal nulla. Quella psicologica che senti in casa tua, fatta di tensioni e di silenzi. Le paure collettive, i mostri che nessuno vede e che tutti temono. I libri, che ti mettono "nei panni degli altri". La menzogna a cui obbliga il patto sociale. 

La notte in cui Charlie si lascia trascinare nel bosco alla scoperta del cadavere di Laura, segna il suo passaggio all'età adulta. Eppure, nel suo modo di vedere e ragionare, è già molto adulto. Come si lega questa maturità così accentuata alla psicologia di un ragazzino di tredici anni?
Questo libro è il conflitto di Charlie. Da un lato è pieno di empatia e compassione, perché legge molto, ha imparato a vedere oltre e ad avere un senso della verità più ampio. Per questi motivi Jasper Jones sceglie lui, apparentemente così diverso: riconosce in lui questi tratti e sa che è l'unico che può capire il suo punto di vista e il pericolo che sta correndo. Sa che la città darà a lui la colpa di quella morte. dall'altro lato è vero che Charlie è molto maturo, ma i libri non sono la realtà e non bastano ad affrontare quello che c'è fuori: deve capire quello che sta vedendo per la prima volta. Sta crescendo.

Un tema centrale, anche se esplicitato solo in un passaggio, è la menzogna a cui si obbliga chi sceglie di vivere in società. Perché questa riflessione?
Bisogna avere coraggio per contrastare l'opinione popolare e per alzare la propria voce davanti alla folla. Charlie lo ha fatto. Si pone delle domande, si avvicina a Jasper Jones, così distante da lui, e riesce ad avere una visione che va al di là di ciò che si vede. Capisce che l'atteggiamento sociale che lo circonda è sbagliato. Le scelte possibili sono solo due: ti conformi alla comunità o ne contrasti le idee. Con queste riflessioni Charlie capisce qual è il valore vero del coraggio. All'inizio lo vede in Jasper Jones, ma poi capisce che è qualcosa di diverso, è la capacità di inghiottire la propria paura e dire ciò che si vede. Tutto questo si lega al fatto che la gente ha una fiducia cieca negli stereotipi, e non si rende conto di mentire, perché non cerca cose diverse.

Perché c'è bisogno di ragionare sulle parole, scandagliandole con attenzione millimetrica, come fa Charlie?
Innanzi tutto questo amore per le parole e i loro significati lo distingue e gli dà autostima. Gli piace la sensazione che danno, le considera gemme da collezionare. Il rispetto per le parole che si trova in questo libro, è l'estensione dell'amore che Charlie ha per loro. C'è poi un passaggio su una parola precisa, scusa. In questo momento è centrale in Australia, e riguarda la coscienza sociale collettiva e il bisogno di chiedere scusa agli aborigeni per gli abusi che hanno subito nel passato, ma c'è una forte riluttanza. Chiedere scusa non significa solo ammettere di aver sbagliato, e quindi assumersi una colpa, ma saper compartecipare al dolore. Per questo volevo esplorare i diversi significati di questo termine. 


domenica 23 maggio 2010

Gemma Weekes, Love me

Gemma Weekes, al centro, tra il suo traduttore Seba Pezzani
e la scrittrice Elisabetta Bucciarelli 

Londinese con origini caraibiche, 25 anni, la voglia di confrontarsi e la difficoltà di trovare i punti di riferimento. L'innamoramento, sopra a tutto. Eden è la protagonista di Love me, primo romanzo della musicista e poetessa Gemma Weekes (Alacrán, 327 pagg., 17.50 euro, traduzione di Seba Pezzani), con affondi autobiografici che è impossibile ignorare: primo fra tutti il luogo di nascita che la accomuna a Eden, nell'isola caraibica di Santa Lucia, che inevitabilmente la colloca a metà strada tra due culture.  "E' una tipica, umida serata d'estate londinese, rossa di inquinamento e traboccante di ubriachi del weekend... Le ragazze se ne vanno in giro nei loro abitini con le spalline e le loro scarpe strette e i ragazzi, ingellati e strasbronzi, non fanno altro che strepitare per la strada, nelle loro tribù di narcisi. E io vorrei tanto amare uno qualunque di quei ragazzi semplici". Parte da qui la voglia di infatuazione di Eden, e ha un nome: Zed. Con una scrittura fresca e spesso gergale, dal ritmo fortemente musicale, Gemma Weekes stravolge l'approccio al romanzo d'amore, distaccandolo dal genere e trasportandolo nella narrativa a tutti gli effetti. Soprattutto, Love me è un romanzo dai temi incrociati, e sulla difficoltà di piacersi e di confrontarsi.

Cosa significa chiedere amore?
L'amore è il sentimento primario per qualsiasi essere umano. Questo è il mio primo romanzo, e dovendo pormi un quesito fondamentale, ho deciso di partire da questo vuoto che cerchiamo costantemente di colmare.

Perché Eden fa così fatica ad accettare la propria bellezza?
C'è una pressione fortissima sulle donne, e la bellezza è un elemento fortemente mediatico, che crea difficoltà quasi a tutte. L'accettazione di se stesse è uno dei riti di passaggio fondamentali per le donne, per questo è uno dei temi trattati più diffusamente nel libro: lo affronto da diversi punti di vista, con personaggi più e meno giovani, con differenti fragilità e difficoltà. Eden cerca una sua estetica e individualità. Le sue insicurezze di venticinquenne sfociano, per esempio, in frecciate nei confronti di chi si è già affermata: sono quelle che definisce "passerine mainstream", come Max, modella bellissima a dispetto del nome maschile, che ha raggiunto una sicurezza grazie alla quale può fare ciò che vuole. Eden si rende conto di non appartenere a questa stessa bellezza perfetta, ma allo stesso tempo la sicurezza delle altre donne aumenta la sua vulnerabilità.

Quanto i sogni si infiltrano nelle nostre giornate?
I sogni sono il film del subconscio. Spesso noi viviamo su due livelli, fin dalla nascita, con la rincorsa perenne tra la realtà e il bisogno di contrastare le forze che alimentano il nostro desiderio, la ricerca di ciò che non abbiamo avuto. In questo noi artisti spesso abbiamo la possibilità di abbandonarci e di esplorare e raccontare cose che altri nemmeno percepiscono o avvicinano.


venerdì 21 maggio 2010

101 luoghi più romantici di Milano dove innamorarsi per tutta la vita


Detta così sembra una cosa impegnativa. Molto impegnativa. Ma poi ha la meglio la curiosità. Perché già solo per promettere, al di là della capacità di mantenere, qualche caratteristica dovranno pur averla questi luoghi. Forse la strana capacità di risvegliare appetiti emotivi? Nella guida di Micol Arianna Beltramini, 101 luoghi più romantici di Milano dove innamorarsi per tutta la vita (Newton Compton, 285 pagg., 14.90 euro), le idee non mancano, e sono adattabili alle preferenze di ognuno. Dalla suggestione del giardino con statue fino ai virtuosismi dell'arte e dell'architettura, lo spettacolo e quella cultura che sorprende, qualche luogo nebbioso e avvolgente, e l'acqua urbana in cui specchiarsi. In questo periodo io punterei sui giardini, perché più il tempo passa e più gli trovo quel nonsoche capace di attirarmi. Il silenzio, forse. Il bisogno di circondarmi dell'assenza di ogni ritmo. Il verde, che mi rimette in pace sempre.

Che forma ha la Milano romantica?
E' nascosta e la devi andare a cercare: ci sono giardini e cortili molto belli e segreti che si vedono solo sorvolando la città, ma è anche vero che nelle vie secondarie, che custodiscono questi scorci, si va poco. Per il resto le aree verdi sono tutte ai margini: in centro c'è solo il Parco Sempione e i Giardini di Porta Venezia. Milano è la città più città di tutte, dove effettivamente è strano sentirsi innamorati. Per questo il concetto milanese di amore è un po' diverso e se stante rispetto ad altri posti: non è immediato e non è romantico. Però credo che al romanticismo si possa arrivare attraverso alcuni luoghi.

Qualche esempio?
Il giardino più romantico penso sia l'Orto Botanico di Brera. Ci sono fiori che cambiano a ogni stagione, in un silenzio assoluto. E' un posto dove ti accorgi di avere un olfatto. Poi direi la zona di Porta Venezia, una sorta di quadrilatero del silenzio. All'interno dei giardini da circa un anno c'è l'oasi delle farfalle, con quasi trecento specie in un microclima tropicale, come le butterfly farm collocate ai bordi delle foreste che facilitano la riproduzione. Poi c'è lo stagno con le paperelle. Nei dintorni ci sono inoltre Villa Necchi Campiglio con il parco riaperto al pubblico da poco, Villa Invernizzi in via dei Cappuccini con una fontana e i fenicotteri rosa, Villa Belgioioso accanto al Pac: giardino all'inglese e sculture, lago con papere, fiori e il patio della villa.

Il tuo luogo sopra ogni altro?
Il Parco Lambro e il Monte Stella, dove si andava quando si bigiava la scuola.

martedì 18 maggio 2010

Elisabetta Bucciarelli, Ti voglio credere


Lo spazio si chiude in una prospettiva unica, nella ricerca di un ricordo risolutivo. Qualcosa che permetta di comprendere, ma non necessariamente di assolvere. L’ispettore di polizia Maria Dolores Vergani cerca una verità per se stessa, chiusa nella sua abitazione, agli arresti domiciliari in attesa di chiarire il suo ruolo in un delitto. Elisabetta Bucciarelli con Ti voglio credere (Kowalski-Colorado Noir, 298 pagg., 15 euro, in libreria da domani) affronta il noir con decisione, crea un’atmosfera densa, limita gli spazi di fuga. Un libro di introspezione, di riflessione, di ossessione, che ribalta i punti di riferimento della percezione. La ricerca sui limiti della verità è, allo stesso tempo, una rivendicazione di libertà, un incrocio di considerazioni progressive sul diritto di mentire, che ci governa a dispetto di ogni migliore intenzione. Ti voglio credere è un romanzo sulla costruzione graduale dei limiti che imponiamo a noi stessi, e sulla difficoltà di farli rispettare a chi ci ruota attorno. Le storie che fanno da sfondo, come sempre accade nei romanzi della Bucciarelli, si incrociano e guadagnano attenzione. Le indagini e i dubbi entrano nella casa che è teatro quasi totale dell’azione, portati da chi non si rassegna a stare lontano dall’ispettore Vergani, affossando la sua voglia di distacco dal mondo. Le anoressiche dai corpi martoriati dalla malattia a da chi ha approfittato di loro, le gigantesche croci in legno che compaiono nei giardini milanesi, un dentista che eccede nelle estrazioni di denti sani. Gli uomini del passato che ritornano, con Doris ancora una volta impreparata ad accoglierli. E poi Achille Maria Funi, che diventa ispettore e non sa quanto esserne fiero.

Perché c’è bisogno di ragionare sulla verità, e quali sono i limiti di questa ricerca?
Ho sentito la necessità di parlare di verità perché è da troppo tempo che mi sento circondata dalle menzogne. Grandi e piccole. Uomini che tradiscono le loro donne e negano senza tregua. Politici che dicono cose che non stanno né in cielo né in terra e tutti ci credono. Verità evidenti che diventano situazioni kafkiane, e per finire pseudo esperti alla Csi che imperversano alla tv del dolore, dispensandoci le loro presunte verità a base di impronte digitali o altre fesserie simili. Sappiamo ormai bene che “la verità” è un concetto elastico, che spesso neanche coincide con la Giustizia. E siccome chi scrive sperimenta la vita attraverso le parole, mi sono avventurata in questo territorio difficile, rabbioso e in apparenza privo di certezze. Il vero limite è il concetto di “verità relativa” invocato dai più e la fatica di confrontarsi con la durezza della “necessità di menzogna”.

La claustrofobia, condizione fortissima di questo libro fin dall’immagine della copertina, è un punto di vista, capace di cambiare la percezione dei nostri spazi fisici. Quanto è sentita da Maria Dolores Vergani e come la trasforma il suo modo di pensare a se stessa?
La claustrofobia non è solo uno stato reale, ma è soprattutto una condizione della mente, strettamente collegata alla percezione che abbiamo delle cose. Per esempio, Maria Dolores Vergani è agli arresti domiciliari, in una casa popolare. Spazi piccoli, angusti. Eppure i suoi pensieri più “larghi” vengono partoriti in questa condizione esistenziale e fisica estrema. La probabilità che la Vergani esca “sana” dal suo avvitamento mentale e ideologico appare all’inizio quasi uguale a zero. Per farcela, la sua sete di coerenza e verità contrapposta all’ipocrisia e alla menzogna, dovrà lasciare spazio all’elasticità mentale e alla capacità di adattamento. In uno spazio piccolo la mia protagonista ritrova identiche le dinamiche degli spazi larghi. E deve sperimentare il concetto di “menzogna privata necessaria”, che in qualche modo finisce per spiegare quella “pubblica”.

Un altro tema forte di riflessione è quello delle barriere tra sé e il mondo, del bisogno di distacco e della ricerca di spazi propri. La Vergani, trasformata suo malgrado nell’epicentro di un mondo che dovrebbe stare lontano da lei, diventa la dimostrazione di quanto sia impossibile essere lasciati soli. Perché questa frenesia?
Viviamo fin dall’infanzia nel mito della “socializzazione” a tutti i costi. Veniamo allevati con l’angoscia di non essere in grado di stare in mezzo agli altri. Poi, crescendo, siamo sempre più soli, perché in realtà costringendo gli umani a stare insieme a tutti i costi e nel modo sbagliato, (mettendoli in competizione, non puntando sulle diversità ma sui fattori comuni), alla fine si allevano solitudini. Bandito il dissenso, è tutto un lavorare sull’evitamento del conflitto. Siamo in un teatro della finzione continua. Ostentiamo la nostra capacità di essere animali politici e sociali, ma dietro coviamo frustrazione e antipatie. Ecco perché vince chi finge meglio. Chi si astiene. Chi non dice. Per convenienza (umana ed economica) e opportunismo (quasi sempre per questioni di potere). Il paradosso è la Vergani. A casa ai domiciliari deve difendersi dal fuori che la assale. Quando cerca di fare silenzio si rende conto di quanta confusione inutile esista intorno a lei. E quanta paura faccia davvero la solitudine. Ma senza “necessità sociali” diventa finalmente una persona più libera.


domenica 16 maggio 2010

Sebastiano Mondadori, Un anno fa domani


Inizia con un senso di vaghezza, quella di chi vede il mondo attraverso l'annebbiamento dell'alcol, che aiuta l'abbandono, il distacco, il saper essere concilianti con se stessi. Racconta la storia di un uomo la cui contraddizione sta già nel nome, Vittorio Congedo, incapace di lasciarsi le emozioni alle spalle. Racconta anche la storia di un amore, così radicato da non svanire nemmeno con la morte, con il tentativo di ricostruire un'esistenza, seppure disordinata e annientata dall'incapacità di replicare i sentimenti, di credere in chi hai accanto. Con Un anno fa domani (Instar Libri, pagg. 250, 14.50 euro), Sebastiano Mondadori racconta una storia in cui il presente incessante, che non cambia mai i suoi tempi, segna il peso di un'ossessione, dove l'incalzare degli effetti dell'alcol a cui si abbandona il protagonista, cambiano progressivamente la prospettiva dei due giorni in cui si concentra la narrazione.

Chi è Vittorio Congedo?
E' un personaggio inattendibile, che racconta da ubriaco: quando ho trovato il tono giusto per farlo parlare sono partito. Congedo è un uomo che non si rassegna alla perdita della moglie, da cui stava divorziando, e che un anno dopo si trova a fare i conti con l'ossessione per questa donna, anche se nel frattempo si è risposato e ha avuto una figlia. In lui verità e crudezza raggiungono il limite dell'indisponenza. E' molto goffo, e finisce per ispirare compassione, ma viene raccontato senza riserve. Nella sua nefandezza, si scopre l'aspetto umano: è inadeguato, non sa provare i sentimenti giusti. E' la storia di un immaturo: ha idealizzato questa donna, ma con uno sguardo molto impersonale. Infatti, quando viene raccontata da altri sembra un'altra donna.

L'ossessione è una forma d'amore?
Non lo so, anche se mi piace pensarlo. Mi fa piacere quando dicono che questo è un romanzo d'amore, perché lo penso anch'io.

Quanto sono entrate in questo romanzo le vite di chi ti circonda?
Quando uno scrive, gli altri finiscono per raccontargli la loro vita, non si capisce perché... Così, in quello che scrivo metto sempre pezzi delle vite degli altri. In realtà devo a Mario Monicelli la paternità di ogni mio personaggio, che mi ha insegnato ad abbassare lo sguardo sui soggetti che stai raccontando. Poi non si può scrivere se non hai letto, e non sei consapevole di ciò che ti ha preceduto. Scrivere lo considero un lavoro vero, quando sono impegnato metto ordine nella mia vita, mi alzo a orari regolari e non eccedo in niente.