venerdì 29 ottobre 2010

Kevin Power, Giornataccia a Blackrock


L'inizio è un pestaggio fuori da un locale pubblico. Un fatto di cronaca nemmeno troppo originale, con ragazzi feriti, ridotti in coma, rovinati. Morti, a volte. Molto alcol in corpo e nessun motivo valido per scatenare così tanta aggressività. Accade anche a Dublino, nella città ricca e cattolica degli ambienti universitari, e da questo omicidio Kevin Power parte alla ricerca di una logica, un motivo che basti a giustificare la morte di un ragazzo poco più che ventenne, ucciso da una raffica di calci alle testa. Al suo esordio narrativo, con Giornataccia a Blackrock (Marco Tropea, 283 pagg., 16.50 euro) Power racconta con distacco cronachistico la durezza di un vuoto sociale che ingloba ogni aspetto dell’esistenza, dalle amicizie fino ai legami sentimentali, e che esplode nella trascuratezza di una morte di cui nessuno si cura. Conor Harris patisce un’agonia inutile, in mezzo all’indifferenza di chi non presta attenzione all’ennesimo ubriaco buttato a terra fuori da un pub. Come in una perfetta ricostruzione giudiziaria, Power indaga la vita di Conor e dei suoi tre assassini, la loro socialità già radicata in schemi che disegnano un futuro solido e ricco. Le abitazioni con la piscina da usare un paio di giorni all’anno. Le ragazze, la scelta delle migliori, le gelosie che implodono. Fin dalle prime pagine si sa chi ha ucciso, e come si è concluso il processo a loro carico. Le punizioni minime che la legge riserva loro. I fatti sono tutti svelati, quello che c’è da scoprire sta altrove. Nell’educazione, nella pochezza, nel darsi in cambio di nulla. Nell’alcol che scorre a fiumi e che regala protagonismo e identità, che congela i problemi e anestetizza le menti. Ma c’è qualcosa in più in questa ricostruzione, un punto di vista profondo, una sfumatura di emotività che rende ancora più neri i toni di un romanzo e che si stacca dalla pura indagine sociale o giudiziaria. Chi racconta è una voce fuori campo molto vicina a tutto: agli accadimenti e ai suoi protagonisti. Uno sguardo totalizzante che solo a poche pagine dalla fine viene svelato.

domenica 24 ottobre 2010

Francisco Gonzàles Ledesma, Non si deve morire due volte


La copertina mi ha colpita subito, e più volte, durante la lettura, sono tornata a guardarla interrompendo la pagina, o persino una frase. Racchiude una suggestione di potenza narrativa e di metafora, la stessa con cui si apre il libro, una forza che trascina fino all'ultima riga e che inizia con quel drappo rosso che sembra gettato sul volto della sposa. E' lei che cammina verso l’altare, il bouquet in una mano e una pistola nell'altra, nascosta dietro la schiena. Non si deve morire due volte di Francisco Gonzàles Ledesma (Giano, 359 pagg., 17 euro) inizia con un inganno di percezione, spinge a costruirsi una trama interiore già dopo poche pagine, ad anticipare i passaggi successivi, ma ci si sbaglia. Perché anche lo sposo ha una pistola nella fondina. E' tutto calcolato al millimetro, ma lei spara per prima. Sandra Lopez fallisce, rimane viva e può iniziare a raccontare la sua storia, la prima delle tre con cui Ledesma costruisce il suo gioco di intrecci: piani alternati e trame ben distinte, un ritmo che è il primo vero collante di questo ottimo romanzo, dove tutto trova una sua logica e un suo senso di giustizia. Il secondo è Méndez, ispettore fuori binario della polizia di Barcellona, che ha ormai visto molto, che sa ignorare i divieti e le logiche più facili. Mentre avvicina Sandra, lo sfiora Gabri, il killer appena uscito dal carcere, assoldato per un altro delitto che cancellerà il suo debito con chi lo ha aspettato con pazienza e dedizione. Nel suo curiosare, Méndez suona al campanello della villetta fuori città in cui viene tenuta segregata una bimba down, quartiere selezionato come le sue frequentazioni. Silenzi dove la violenza implode grazie alla capacità di Ledesma di lanciare una suggestione e poi ritirasi, quando ormai la trama procede anche da sola. Ogni volta ci si trova seguire un'intuizione e poi a doverla stravolgere, ad affrontare temi nuovi e personaggi che spesso non sono mai del tutto buoni o solamente cattivi. In un affresco in cui i bisogni fittizi superano quelli reali, Ledesma parla di pedofilia e di terrorismo, di valore della vita, di bassezza dell’animo, di amori che sanno aspettare a lungo. Un libro che non si dimentica. 

giovedì 21 ottobre 2010

Cristina Cattaneo, Certezze provvisorie


L'indagine scientifica non porta alla soluzione di ogni mistero. In parte lo avevamo già capito, ma  quando il quadro astratto comincia a prendere confini più definiti, pregi e limiti dell'analisi di ogni prova con microscopio e reagenti, si delineano con maggiore chiarezza e concretezza. Certezze provvisorie, terzo libro scritto con fini divulgativi dall'anatomopatologa forense Cristina Cattaneo (Mondadori, 180 pagg., 17 euro), arriva a mettere ordine in questa percezione, spiegando come i limiti oggettivi di un settore che rimane fondamentale all'interno delle indagini giudiziarie, non ne determinano la svalutazione, ma piuttosto l'onestà. A questo si aggiunge lo stimolo costante ad andare sempre più avanti nella capacità di lettura di uno scheletro o di un ambiente naturale in cui si è consumato un delitto. Elemento fondamentale del Labanof di Milano - Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense - Cristina Cattaneo negli anni ha portato avanti uno dei progetti multidisciplinari più all'avanguardia in Italia nella ricerca scientifica applicata allo studio dei resti umani: qui ci si occupa di morti di difficile lettura, scheletri a cui si tenta di dare un'identità, reperti difficili da datare. La lettura di un dettaglio, come una invisibile frattura ossea o il doppio foro su un cranio, diventa fondamentale per stravolgere la ricostruzione di un delitto, rivelare le modalità che hanno portato alla morte di un ragazzo o di una donna. Non sempre però questo è possibile: a volte la percentuale di sostanza tossica presente nel midollo osseo di uno scheletro, non è sufficiente a stabilire se quell'avvelenamento possa essere stato causa del decesso, oppure il tentativo di stabilire la maggiore o minore età di chi ha commesso un grave crimine (il cui destino processuale cambierebbe in modo significativo), non arriva a dare risposte sicure attraverso la sola analisi delle ossa dei suoi polsi. 
Qui emerge il volto più umano di questa professione e delle storie che rivela e racconta, dove i limiti non sono sconfitte, ma stimoli a seguire altre strade di ricerca, e dove l'emotività e l'entusiasmo costituiscono un patrimonio fondamentale, messo a disposizione di un'intera collettività e di chi aspetta, anche per anni, delle risposte.