domenica 13 dicembre 2009

James Sallis, La strada per Memphis

La sua è pura provincia americana, lontana da ogni pensiero metropolitano, e legata solo a logiche di sopravvivenza, vendetta, fuga. Centinaia di chilometri da macinare ogni giorno, polvere e mestieri improvvisati, una giustizia che fatica a disegnare i suoi confini, ma anche lo spazio in cui agire. James Sallis racconta questa società, da sempre. Nell'ultimo romanzo, La strada per Memphis (Giano, 223 pagg., 17 euro) John Turner, ex detective con undici anni di carcere alle spalle e una filosofia del fatalismo ormai radicata, accetta il ruolo di vicesceriffo di una cittadina del Tennessee. Quanto basta per spingerlo a vendicare l'aggressione di un collega e ad affrontare con insolita scioltezza violenze, gang, informatori. La storia è un pretesto per raccontare un mondo che rischia di sfuggire di mano, di rimanere un ritratto da cartolina senza più protagonisti reali.

Raccontare la provincia americana è stata una scelta obbligata per trovare uno scenario adeguato al tuo concetto di noir?
Non so se questo è il motivo per cui ho deciso di parlarne. Sono nato in provincia, ma ad un certo punto mi sono reso conto che non ne avevo mai scritto. E' un mondo che tende a scomparire, perché nessuno lo sopporta. Sta diventando effimero, e ho capito che avevo voglia di scrivere di questi uomini, ma dovevo trovare il modo giusto per farlo. E' stato un episodio apparentemente banale a farmi capire come avrei dovuto affrontare questo contesto: un giorno ho visto due persone che confabulavano accanto a una pompa di benzina, e mi sono chiesto che cosa stavano dicendo, quali potevano essere i loro argomenti. A quel punto ero già trascinato nella loro dimensione. La provincia è un surrogato di tutti gli Stati Uniti, ma chi ci vive sono soprattutto cow boy. Sono la parte periferica di una società più grande, e volevo descrivere questa marginalità.

Perché le tue figure di donne sono sempre così mascoline?
Forse perché le donne da cui sono sempre stato attratto sono molto forti. Inoltre trovo offensivi i personaggi femminili deboli: non ho mai avuto pazienza o interesse per le donne prive di abilità particolari, e quindi trovo stupido pensare che una donna non possa essere mascolina e lo stesso sposarsi ed avere delle buone qualità. In realtà nessuno mi aveva mai fatto questa domanda, e ci sto riflettendo solo ora.... C'è un mio romanzo non ancora tradotto in Italia, Others of my mind, che racconta in prima persona di una donna che è stata adottata. Volevo mostrare come tutti siamo vittime, perché tutti abbiamo subito danni che ci hanno minati nel profondo, ma allo stesso tempo provo molto interesse a parlare di queste persone che sono riuscite a diventare forti anziché permettere che il mondo le schiacciasse.

Quando ritieni che una storia sia un buon soggetto da raccontare? Quali caratteristiche deve avere?
Ce ne sono parecchie, ma alcune sono prioritarie. Insegno scrittura creativa, e ai miei studenti dico sempre di non cercare di far entrare per forza un mondo in una sola frase. Per me è importante l'affresco generale che si viene a creare, e non importa se servono quattrocento pagine o una sola. La storia deve mostrare un mondo più grande di quello in cui viviamo, e alla fine della lettura ci deve lasciare qualcosa. Una volta superate le questioni pratiche come lo stile, bisogna ragionare sulla struttura, che deve essere fatta di anticipazione e quindi stimolo della curiosità, e di qualcosa che il lettore non si aspetta. Questo misto di attesa e sorpresa per me equivale all'arte, o almeno a ciò che io definisco arte. Se già io come scrittore mi autosorprendo, facendo qualcosa che non mi aspettavo, credo che valga a maggior ragione per i miei lettori, e che quindi quello che sto facendo possa essere una buona cosa.

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