domenica 31 gennaio 2010

Protagonisti seriali: gli addetti ai lavori

Chi vive di libri ama i personaggi ricorrenti? Aspetta il nuovo romanzo con l'entusiasmo di trovare qualcuno di conosciuto tra le righe o preferisce nuovi scenari? Ecco le risposte di alcuni critici letterari, conduttori radiofonici di trasmissioni culturali, blogger e giornalisti.


Alessandra Buccheri, Angolo Nero
A volte il romanzo stand-alone non basta, ci sono personaggi le cui potenzialità non possono essere esaurite in una sola storia, né è opportuno mettere troppa carne al fuoco in un unico libro. Tre-quattro romanzi con lo stesso protagonista vanno bene, il quinto è a rischio. Rischio noia del lettore, rischio ripetitività, rischio che si esaurisca l'estro dell'autore. Meglio allora puntare su un co-protagonista, creare uno spin off, se si vuol mantenere comunque la continuità di situazioni ambientali. Oppure salpare verso lidi completamente nuovi.

Giovanni Choukhadarian, giornalista.
Sì ai seriali, ma solo e soltanto in quanto ambiscano al mito. Altrimenti, se il loro fine è rendere il lettore fedele al prodotto, direi che no, perché di motivi del genere se n'hanno le tasche piene.

Giuseppe Pastore, Thrillercafé.
Io voto per il sì. I protagonisti seriali diventano - se lo meritano - degli "amici" per il lettore, col tempo. Maturano, invecchiano, falliscono e si rialzano. Ci accompagnano durante lunghi anni, cambiano loro e cambiano noi, a volte ci perdiamo di vista ma quando li ritroviamo, nonostante tutto, è come se ci fossimo salutati il giorno prima.
Viva i personaggi seriali!

Marco Casa, conduttore radiofonico a Radio Marconi.
Sono molto favorevole ai personaggi seriali ma anche tutto sommato abbastanza sfavorevole. Dipende dall’uso che se ne fa. Dopo questo incipit banalissimo è il caso di spiegare meglio. Un personaggio seriale nella narrativa o nei fumetti è decisamente rassicurante per il lettore e per lo scrittore che ha trovato la chiave giusta per la porta del successo. Soddisfa la voglia di immedesimazione del suo pubblico e garantisce la vivace noia di una ripetizione sempre nuova. Bravo lo scrittore in grado di creare un personaggio seriale che appassioni. Bravissimo però l’autore che ha dato vita ad un personaggio seriale ma che ha l’umiltà o il coraggio di abbandonarlo per un po’ (o per sempre, se è il caso) quando si accorge che il suo “figlio di carta” non ha più niente da raccontare. E poi dipende dalle dosi con cui ci viene proposto l’eroe. Esemplari sono le strisce dei Peanuts che hanno il record di longevità, le si possono immaginare come goccioline distillate quotidianamente che mai stancheranno, proprio per le piccole dosi con cui vengono diffuse le loro storie.

Nicoletta Sipos, giornalista
Sui protagonisti seriali sono, in linea di principio, neutra. Secondo me funzionano se hanno caratteristiche molto ben definite, tanto da essere facilmente amati dal pubblico, e nella misura in cui reggono le storie di cui sono interpreti. La serialità stuzzica, secondo me, la curiosità del lettore e fidelizza. Gli esempi abbondano: da Harry Potter a Indiana Jones, da Sandokan e Yanez a Sherlock+Watson. Ma se la storia è loffia... ecco che perdiamo il lettore per sempre!

Raffaella Calandra, conduttore radiofonico a Radio 24.
Mi piacciono, con riserva. Solo in pochi casi, ma allora con convinzione. I protagonisti seriali mi conquistano se, superato il primo insidioso rischio fiction, continuino a saper sorprendere. Se siano familiari, ma restino avvincenti, autentici e non prevedibili. E se il loro mondo sia originale, vero e ammaliante. Come i racconti di certi vecchi dei paesi del Sud, che seduti d'estate davanti alle loro porte di casa, riescono ogni sera a pescare dalla memoria frammenti di saghe vissute e tramandate. Fondamentale, l'intimità del connubio tra il personaggio e la sua realtà: quel mondo che svela progressivamente, il lettore lo deve volere esplorare, ogni volta di più, attraverso i passi del suo protagonista. Credo che i protagonisti seriali siano una buona cartina di tornasole della "dimensione" di uno scrittore. Soprattutto di noir.

sabato 30 gennaio 2010

Protagonisti seriali 5: Piero Colaprico

Prima di passare la parola agli addetti ai lavori, Piero Colaprico conclude questa serie di interventi sui protagonisti seriali della narrativa. Parla di Salvatore Bagni, ultimo arrivato tra le sue creazioni, ma la sua scrittura si è sempre confrontata con protagonisti nati in funzione della serie, della possibilità di ritrovarli e di seguirli, magari incrociandone le storie: il Maresciallo Pietro Binda, nato dall'esperienza di scrittura con Pietro Valpreda, Corrado Genito, ex carabiniere dai trascorsi mai troppo chiari, ed infine Bagni, poliziotto spregiudicato, quel tanto che basta per complicarsi la vita privata e, ogni tanto, far tremare i polsi dei suoi lettori. Uno che sa sempre come cavarsela...


Piero Colaprico e l'ispettore di polizia Francesco Bagni: l'ultimo romanzo è La donna del campione (Rizzoli)
Tutti i miei personaggi, tutti, dai protagonisti alle comparse, sono seriali. C’è persino un boss morto ammazzato, Ferdinando Natalone detto il Colombiano, che torna, sotto forma di citazione in vari libri successivi a quello che l’ha visto coprotagonista, Kriminalbar (Garzanti bestseller, ristampa febbraio 2010, euro 8,90). E in un libro incardinato sul maresciallo Binda, carabiniere serio e onesto del Nord creato insieme con Pietro Valpreda (Marco Tropea editore), fa capolino anche l’ispettore della Omicidi Francesco Bagni.
Bagni. Sì, lui è l’unico del quale vorrei parlare come "seriale". Per varie ragioni. Sia perché non si sa che fine abbia fatto. C’è chi dice che sia morto, chi invece sostiene che sia vivo e stia all’estero, per svolgere un compito molto difficile e delicatissimo in zona di guerra. Poi perché esiste un’intrigante questione femminile intorno a Bagni: ci sono lettrici che mi scrivono "eh, sarebbe bello conoscere un tipo così". Altre lo definiscono semplicemente uno stronzo.
Bagni mi ha regalato alcune soddisfazioni. Come protagonista di Trilogia della città di M. mi ha fatto vincere il Premio Scerbanenco, ex aequo con la mia amica Barbara Garlaschelli. E con La donna del campione (Rizzoli, 2007) mi ha confortato non poco: quando ho finito di scrivere, ho avuto la certezza di essere diventato io uno scrittore e se non fosse stato per il fiuto, le debolezze e la caparbietà di Bagni non ci sarei riuscito.
Che volete sapere, ancora? Bagni nasce in Svizzera, figlio d’immigrati, mamma sarta e papà capocameriere. Parla bene le lingue, si arruola nella polizia italiana intorno a vent’anni. Dopo varie esperienze, entra alla Sezione Omicidi della squadra Mobile di Milano, ne diventa ispettore capo. È il punto di riferimento dei colleghi. Entra nei miei libri sin dall’inizio, sin da Sequestro alla milanese, romanzo non del tutto riuscito ma non del tutto sbagliato. Protagonista del libro è in verità un ex carabiniere cacciato dall’Arma, Corrado Genito. Genito è impegnato in indagini piuttosto spericolate che sfiorano il sistema della tangenti ai partiti (da notare: l’ho scritto nel ’90, Tangentopoli risale al ’92. Doti di preveggenza o buone informazioni? Credete dunque ai maghi?).
Queste tangenti, secondo la trama, vengono impiegate per pagare il riscatto necessario al rilascio del figlio (noioso e comunista) di un politico corrotto (ogni riferimento alla vita italiana è casuale). Dopo la sua breve apparizione, Bagni torna - e non è un caso - in Kriminalbar, dove soccorre sempre il solito Genito (altro mio seriale, ma in questo periodo in galera e non può parlare). Lo aiuta arrivando, al momento opportuno, su un viale del quartiere Gratosoglio, dov’è implicato in una storiaccia molto rischiosa.
Ora, se non ho capito male, c’è da ragionare su come e perché Bagni cresca (dentro di me) sino a diventare un quarantenne (più giovane, dunque, dell’autore, questo povero autore di medio insuccesso nonostante l’età che avanza). E come mai questo detective non si sia mai sposato (al contrario di me). Politica? Scarsa, si sa appena che vota a destra (beh, come molti poliziotti) e, nonostante non abbia difficoltà a "incontrare", aspetta e spera il grande amore: magari non puro, ma vero. Nel frattempo, tra un’intrusione in un covo di balordi e un pedinamento, ha spezzato con tranquillità un paio di cuori e cerca di proteggere il suo dalle fregature (deve averne prese). Ma vuole davvero amare ed essere amato?
Per tutte queste domande, però, preferiscono avvalermi della facoltà di non rispondere. Posso solo aggiungere che un pezzo di verità di Bagni si trova nell’opera teatrale che lo vede protagonista: Qui città di M., con la regia di Serena Sinigallia e con Arianna Scommegna, attrice che interpreta sette personaggi, compreso l’ispettore. C’è in scena una sua collega che racconta come, quando stai troppo in mezzo alle strade di una città, nasce una fusione: un po’ della città entra in te, e un po’ di te si mescola alla città. Questa fusione, che è il contrario della confusione, forse è successa tra me (autore) e Milano (luogo reale e metaforico, che sta per ogni città: infatti per me o il giallo contemporaneo è metropolitano o non è, con buona pace di tutti gli scrittori campagnoli).
Bagni, dunque, dice del luogo dove sta quello che direi io, mentre la sua vita lo porta a fare scelte oggettivamente diverse dalle mie. Sono quelle che avrei voluto fare io? Non credo, almeno a un livello conscio. Ah, dimenticavo. Bagni è considerato dai colleghi molto intelligente e lo dimostra con le indagini, che nascono terra terra: anche il lettore più estraneo alla polizia può comprendere i meccanismi delle inchieste, o imparare come decifrare gli indizi, o intuire come svolgere un buon interrogatorio. E l’autore di fronte a un simile essere di carta e sangue, di inchiostro e lacrime, non può fare altro che osservare e tifare per lui. A proposito, ho sentito dire che un proiettile che lo riguarda molto da vicino sta mettendo in fibrillazione i colleghi della Omicidi: e più d’una ragazza comincia a fare domande... Quindi tanto stronzo mi sa che non dev’essere. E questa è la vera ragione che l’ha reso il mio seriale preferito.

venerdì 29 gennaio 2010

Protagonisti seriali 4: Carlotto, Fazioli, Perissinotto

Altri tre autori - gli italiani Massimo Carlotto e Alessandro Perissinotto, e lo svizzero Andrea Fazioli - raccontano come sono nati i loro personaggi, e quando sono diventati protagonisti di serie narrative.

Massimo Carlotto e l'Alligatore, investigatore non convenzionale: l'ultimo romanzo è L'amore del bandito (Edizioni e/o)
Il personaggio dell'Alligatore nasce dalla necessità di non essere costretto a usare un appartenente alle forze dell'ordine o alla magistratura. Non solo perché già abbondantemente presenti nella produzione di moltissimi scrittori ma soprattutto perché mi avrebbero obbligato a riprodurre un certo tipo di verità "filo istituzionale" che non mi ha mai interessato. Una sera ascoltando blues in un fumoso e alcolicissimo locale mi sono chiesto: "E se il mio investigatore fosse un ex cantante di blues, ex galeotto e ossessionato dalla verità che si mette al servizio degli avvocati per raccogliere informazioni nel mondo della mala?". L'ho trovata subito un'ottima idea. Ho deciso che sarebbe diventato un personaggio seriale mentre scrivevo il plot del primo romanzo: la verità dell'Alligatore. Avevo intuito la novità e le potenzialità di Marco Buratti.

Andrea Fazioli e l'investigatore privato Elia Contini: l'ultimo romanzo è Come rapinare una banca svizzera (Guanda)
Nel mio caso, è stata una serialità inaspettata… Quando ho scritto il mio primo romanzo, mi muovevo in un territorio inesplorato: nella Svizzera italiana mancava una tradizione di romanzi avventurosi (di genere giallo, noir o thriller). Forse per questo non ho pensato a un poliziotto ma a una figura più discreta (più svizzera?): un investigatore privato elegante, quasi timido, con un’anima per metà socievole e per metà scorbutica. Il personaggio è nato quasi per caso, all’inizio come figura secondaria. Contini ha un ufficio sulla riva del lago di Lugano, e per lavoro si muove fra banche, intrighi, uomini in giacca e cravatta. Poi però ogni sera torna nella sua casa di Corvesco, un piccolo comune nella parte nord del Canton Ticino. Lassù, fra i boschi e le montagne, Contini rivela la parte più selvatica del suo carattere. Cammina per i sentieri, lungo i ruscelli, osserva gli animali, si è fatto degli amici tra gli abitanti del luogo (alcuni assai bizzarri). Questa doppia anima, per metà boschiva e un po’ scontrosa e per metà metropolitana e socievole, rispecchia il territorio nel quale si muove Contini, cioè la Svizzera italiana: dalle nevi del San Gottardo fino ai limoni sul Lago Maggiore! Contini è diventato seriale perché ama mantenere i suoi segreti. Essendo taciturno e poco propenso a parlare di sé, è difficile capire che cosa cerchi, che cosa voglia dalla vita. Alla fine del primo romanzo mi è rimasto il desiderio di saperne di più, e così mi sono divertito a metterlo di nuovo in difficoltà. Cerco però di fare in modo che i romanzi con Elia Contini siano diversi gli uni dagli altri. Lui è il catalizzatore della vicenda, però si muove di volta in volta in mondi particolari, accanto ad altri personaggi forti e all’interno di storie costruite in maniera differente. Insomma: tanto io quanto Contini cerchiamo di non annoiarci mai…

Alessandro Perissinotto e la psicologa Anna Pavesi: l'ultimo libro è L'orchestra del Titanic (Rizzoli)
Quando, nel 2004, sono passato dal poliziesco storico a quello contemporaneo, ho capito che ciò che più mi interessava nelle storie di crimine, non era la soluzione del caso, l'individuazione del colpevole, ma le dinamiche psicologiche che conducono al crimine stesso, i traumi, le vicissitudini che trasformano una persona normale in un assassino. Ed ecco dunque affacciarsi alla mia mente l'immagine di un detective che, invece di rilevare le tracce materiali in stile Csi, preferisce addentrarsi nei labirinti della mente e dell'animo. Da qui dunque il progetto di una detective psicologa. Perché una psicologa e non uno psicologo? Perché avevo voglia di confrontarmi con la narrazione al femminile, avevo voglia di sperimentare qualcosa che, nella vita, era estremamente lontano da me. Terminato il primo romanzo, Una piccola storia ignobile, mi sono accorto che il personaggio di Anna Pavesi non esauriva le sue potenzialità all'interno di quella singola storia, ma che, ormai trasformato dall'esperienza della sua prima indagine, poteva agire in altre vicende. Sono così nati L'ultima notte bianca, in cui Anna Pavesi torna in una Torino trasformata dalle olimpiadi del 2006, e L'orchestra del Titanic, che invece si svolge in Tunisia. Molti mi chiedono se Anna tornerà. Al momento, con Per vendetta, ho abbandonato il poliziesco; in futuro forse...

lunedì 25 gennaio 2010

Protagonisti seriali 3: Asa Larsson, Manotti, Vichi

Il momento in cui sono nati i protagonisti seriali dei romanzi di Asa Larsson, Dominique Manotti e Marco Vichi. Le circostanze che li hanno portati a non rimanere legati a una sola storia, creandosi un loro pubblico.

Como, cippo celebrativo del centenario della nascita
dell'architetto razionalista Giuseppe Terragni, 2004.

Asa Larsson, l'avvocato Rebecka Martinsson e la poliziotta Anna Maria Mella: l'ultimo romanzo è Tempesta solare (Marsilio)
Sono arrivata alla scrittura per una reazione di insofferenza nei confronti del mio lavoro di avvocato, che mi costringeva a vivere in un ambiente materialista, circondata da persone la cui esistenza dipende dai soldi, dalla vita mondana e dai vestiti costosi. Dovevo trovare un modo per cambiare la mia vita, guardarmi intorno, staccare in qualsiasi modo: mi sono iscritta a un corso di scrittura ed è stato l'inizio di tutto. I personaggi che ho voluto creare per raccontare le le mie storie sono due donne dalle vite complementari, ognuna delle quali rappresenta un punto di vista sull'indagine ma anche un modello di esistenza. Messe insieme rappresentano il modo femminile di affrontare i problemi e l'esistenza. Rebecka è un giovane avvocato che affronta la sua crisi esistenziale a partire dal suo legame con i luoghi a cui appartiene. E' una presenza penetrante e quasi in punta di piedi, un personaggio forte ma non invadente. E' una donna aperta, e forse anche felice. Anna Maria Mella è un ispettore di polizia dalla vita molto stabile, con un marito e due figli. E' un po' anomala rispetto alle poliziotte svedesi, che hanno sempre qualche problema nel rapportarsi con gli uomini. In entrambi i personaggi c'è un po' di me stessa, ma anche il desiderio delle donne di essere amate, riconosciute e viste, non solo di raggiungere i risultati che stiamo rincorrendo.

Dominique Manotti e il Commissario Daquin, protagonista della trilogia Il sentiero della speranza, Curva Nord e Il bicchiere della staffa (Marsilio).
Ricordo bene la nascita di Daquin. Volevo fare un romanzo sul Sentier. Il primo personaggio è stato quindi un quartiere molto particolare di Parigi, quello delle confezioni e dell'abbigliamento. Un quartiere al di fuori delle norme, delle regole di un settore molto attivo, e popolato (all'epoca, nel 1980), quasi esclusivamente da uomini. Uno spazio allo stesso tempo violento e caldo. Il personaggio del Commissario è nato come una incarnazione, una propaggine del distretto. Di qui la sua violenza, la sua indipendenza, il suo modo di vivere le relazioni "tra gli uomini" sotto forma di omosessualità. Non pensavo di farne un personaggio ricorrente. A dire la verità a quel tempo, tra il 1993 e il 1995, non ero nemmeno sicura di raggiungere la fine del mio primo romanzo. E' stato l'editore, che amava Daquin e i suoi poliziotti, che mi ha chiesto di riprenderlo in altri due romanzi. Ma non ho voluto continuare. Cerco sempre personaggi che sono incarnazioni di una situazione specifica, radicata in un contesto, e che quindi sono il contrario di personaggi ricorrenti.

Marco Vichi e il Commissario Bordelli: l'ultimo romanzo è Morte a Firenze (Guanda)
Mi ricordo molto bene il primo momento in cui ho pensato a Bordelli. Era un pomeriggio di marzo del 2005. Dopo più di dieci anni che scrivevo in molte “direzioni” diverse, senza alcun risultato editoriale, per la prima volta pensai di misurarmi con il poliziesco, senza un vero motivo. Volevo capire come me la sarei cavata e pensai di farlo con una delle figure più logorate della letteratura di genere: un commissario. Cominciai a scrivere senza sapere chi fosse questo sconosciuto Bordelli, senza sapere chi sarebbe stato ucciso, e senza sapere nulla del colpevole e del suo movente. Dopo qualche pagina ho visto il commissario Bordelli salire sopra un Maggiolino, e ho capito che mi trovavo negli anni Sessanta. La cosa mi è piaciuta, si trattava di ricostruire un’epoca con i suoi ritmi e la sua mentalità. E in più mi ha dato modo di trasferire i racconti di guerra di mio padre nella memoria del commissario.

sabato 23 gennaio 2010

Protagonisti seriali 2: Bucciarelli, Duffy, Varesi

Altri tre autori raccontano il primo momento in cui hanno pensato a quei loro personaggi che, negli anni, sarebbero diventati protagonisti di numerosi romanzi. Si chiamano "seriali", e un libro dopo l'altro raccontano un mondo a cui ci si affeziona. Investigatori che in alcuni casi rimangono fedeli ad un loro status inattaccabile, per non contrariare i lettori che temono di assistere a un loro invecchiamento o indebolimento. Altre volte evolvono seguendo un passo indipendente, portano avanti una vita privata quasi nascosta, che determina le loro scelte e i loro punti di vista, introduce nuovi personaggi nelle storie e prepara, a volte, l'uscita di scena.

Como, Monumento ai Caduti, 1933.
Progetto dell'architetto futurista Antonio Sant'Elia.

Elisabetta Bucciarelli e l'Ispettore di polizia Maria Dolores Vergani: l'ultimo romanzo è Io ti perdono (Kowalski)
Lei è nata in un mattino di rabbia. Dove scrivere, prima ancora che raccontare, significava capire. Una questione di quadri falsi. Di Arte sfregiata. Cercavo qualcuno più forte, risolto, sicuro. Che potesse combattere dove io non potevo. Una donna, possibilmente. Che fosse in grado di guardare la realtà senza semplificarla. Che mi costringesse ad avvicinare il male senza dovermi giustificare. Che fosse abituata a manovrare il dolore. Difesa, protetta, anche rigida e, perché no, fastidiosa. Molto estetica, con angoli bui e zone d’ombra. Ma che non avesse paura. Tutte queste cose insieme ho capito di averle trovate solo al quarto libro. Perché all’inizio mi pareva semplicemente di avere nella penna un poliziotto umano, che fa di ogni caso un esercizio particolare delle sue funzioni. Idealizzato e ideale. Raffinato a tal punto da poter utilizzare altre categorie, quelle artistiche, per decifrare e comprendere la delinquenza comune. Adesso, Maria Dolores Vergani è diventata una vera e propria ossessione. La lente attraverso cui racconto il mondo. Tutto la contiene. Non è un semplice seriale. Diserta le regole dei personaggi scritti “in serie”. Infatti cambia, si modifica, come cambiano le persone che affrontano la vita considerandola un’occasione per sperimentare, che non sono impenetrabili alle emozioni e alle esperienze. E soprattutto, che cercano di capire la loro storia personale prima di prendere posizione sulle questioni della Storia. Per questo non la considero un personaggio “facile”, anzi. Ogni volta è una sfida e non sempre, io e lei, la pensiamo allo stesso modo.

Stella Duffy e la detective Saz Martin: l'ultimo romanzo è Bocche di donna (Marsilio)
Quando ho scritto il primo romanzo con Saz, Calendar Girl, non ho davvero pensato che sarebbe stato lei il personaggio centrale, anche se ovviamente era già molto importante. Mentre stavo scrivendo la prima bozza, credevo piuttosto che la protagonista principale fosse Maggie, che narra la storia alternativa nel libro. All'improvviso però mi sono resa conto che Saz era più importante, più funzionale alla storia e con un grande carattere, adatto a essere raccontato. Allo stesso modo il primo editore che ha pubblicato Calendar Girl, mi ha detto che vedeva Saz come personaggio principale di quel libro, ma anche adatto ad essere protagonista di storie successive. Così si è trovata al centro di una serie di indagini. Non sono stata io a decidere di scrivere storie seriali, o comunque una serie su Saz: è stato il personaggio a creare l'interesse de pubblico.

Valerio Varesi e il Commissario Soneri: l'ultimo romanzo è Il commissario Soneri e la mano di Dio (Frassinelli)
Soneri è arrivato come conseguenza di una storia che volevo raccontare. Nel primo romanzo, Ultime notizia di una fuga, che ha per sfondo la vicenda della famiglia Carretta, avevo bisogno di uno che indagasse. Ho pensato a una fisionomia di investigatore (forse con la testa imbevuta di letture) e si è profilato il volto di un capo della Squadra Mobile di Parma con cui avevo avuto a che fare ai tempi in cui lavoravo nella mia città. E' stato come riconoscere un sospetto dalle foto segnaletiche. Ho puntato l'indice e ho detto: è lui. Lì per lì non avevo certo l'intenzione di farne un personaggio seriale. Sono stati i lettori a suggerirmelo. Il primo, il più qualificato, ha il nome di Raffaele Crovi, il quale ha usato l'argomento più convincente per uno scrittore, offrendomi la possibilità di proseguire le inchieste di Soneri nelle sue collane. Dopo, il commissario è diventato come un personaggio pirandelliano che ha reclamato avidamente altre avventure da vivere.

giovedì 21 gennaio 2010

Protagonisti seriali, da dove arrivano?

Come nasce un personaggio seriale? Qual è il momento in cui si materializza nella mente dell'autore che ne scriverà per gli anni a seguire? E quando si decide che il protagonista di un romanzo guiderà anche le storie successive?
Ho girato queste domande ad alcuni scrittori che hanno fatto questa scelta, e che negli anni sono cresciuti assieme ai loro protagonisti. Inizio con le prime tre risposte: Massimo Cassani, Ugo Mazzotta e Bruno Morchio. Nei prossimi post, assieme alle genesi di altri autori italiani e stranieri, arriveranno anche le opinioni degli addetti ai lavori.

Parco di Villa Greppi, Monticello Brianza

Massimo Cassani e il Commissario Micuzzi: l'ultimo romanzo è Pioggia Battente (Sironi)

Avete presente quei figli non voluti, quelli che nascono senza che fossero stati "programmati"? Ecco, il commissario Sandro Micuzzi è un po' così. Era nato come personaggio minore (e tutto sommato accessorio) per una storia di cui esisteva già un'idea di massima, per la quale occorreva realizzare un plot e, successivamente, scrivere un romanzo. Me l'aveva proposto nel 2005 un'agente letteraria che stava appunto cercando "giovani" autori per questo progetto. Il mio plot, in effetti, andò un po' oltre le intenzioni iniziali dell'editore e soprattutto oltre il genere che si aspettava. La mia idea era quella di scrivere un noir, ma la cosa non piacque granché. E infatti il mio lavoro venne bocciato. A quel punto avevo solo due strade: buttare tutto nel cestino, oppure togliere dal plot tutto ciò che non era farina del mio sacco e provare a concepire un progetto autonomo. Micuzzi - che già originariamente era un commissario con le caratteristiche di oggi - si salvò dal rogo e diventò protagonista. La serialità venne subito dopo. Le storie che avevo voglia di raccontare erano troppe per un unico romanzo, il rischio era di scrivere un polpettone di seicento e passa pagine, con il rischio di ammorbare il lettore... e, ancora prima, l'editore cui l'avrei proposto. Poi mi piaceva l'idea di costruire un teatrino di personaggi che evolvessero con me, che risentissero un po' delle vicende che mi sarebbero capitate (quando si scrive l'umore non è sempre lo stesso, dipende anche dai periodi...). Ecco Micuzzi è nato così, in fondo anche lui è stato una specie di errore di navigazione... come quello di Colombo (il navigatore, non il tenente...).

Ugo Mazzotta e il Commissario Prisco: l'ultimo romanzo è La stagione dei suicidi (Todaro)
L'idea del Commissario Prisco è nata insieme a quella di scrivere un giallo, ormai quasi dieci anni fa. Dovendo scegliere un protagonista scartai l'idea di investigatori più o meno privati, che dalle nostre parti difficilmente si occupano di crimini degni di essere raccontati in un giallo, e decisi che doveva essere un rappresentante delle forze dell'ordine. In quel momento ero in macchina dalle parti di Caserta, e vidi un segnale stradale col nome di un paese, mi piacque e il mio commissario si chiamò... Caturano. Quello rimase il suo nome per alcuni giorni, avevo anche cominciato a scrivere le prime pagine, quando pensai che uno dei rischi del futuro romanzo sarebbe stato inevitabilmente quello di essere accostato ai libri di Camilleri, e che il cognome del mio personaggio e la sua assonanza con Montalbano non avrebbero aiutato. Mi trovavo sulla stessa strada della volta precedente e dopo il cartello per Caturano ne vidi uno per il paesino di San Prisco. Tolsi il santo e mi rimase il commissario Prisco. Che sarebbe stato un personaggio seriale l'ho deciso subito (o quanto meno l'ho sperato!). Mi piace l'idea delle storie seriali, i tre commissari letterari che più amo, Maigret, Ambrosio e Santamaria, sono personaggi seriali e in fondo i protagonisti dei primi gialli della storia della letteratura, Holmes e Dupin, erano personaggi seriali. Io cerco solo di far sì che Prisco non sia sempre uguale a se stesso da una storia all'altra, che ci sia un'evoluzione.

Bruno Morchio e Bacci Pagano: l'ultimo romanzo è Rossoamaro (Garzanti)
L’idea di scrivere un romanzo ambientato a Genova che avesse per protagonista un investigatore privato è sbucata fuori tra il 1998 e il ’99, all’inizio della mia seconda analisi (agli psicoterapeuti corre l’obbligo di sciacquare i panni sporchi, di tanto in tanto). Conoscevo bene alcuni autori, dei quali avevo letto quasi tutto, Vázquez Montalbán, Izzo e Chandler e mi sono ispirato a loro. Ho scritto Maccaia, e avevo intenzione di fermarmi lì. Ho inviato il dattiloscritto a varie case editrici di rilievo nazionale e non ho ricevuto risposta. Significativo è il fatto che, nonostante la frustrazione di non ricevere riscontro, ho subito cominciato a scrivere un secondo romanzo, La crêuza degli ulivi, con lo stesso protagonista. Evidentemente avevo scoperto che, insieme all’analisi, anche la scrittura “mi curava”. E ne avevo bisogno, perché nel 2000 è morta mia madre. In quell’anno a Genova è nata la Fratelli Frilli Editori e ha iniziato la pubblicazione di romanzi gialli ambientati in Liguria. Nel gennaio del 2002 ho perduto anche mio padre, vecchio comunista, sindacalista di valore, al quale devo molto di quello che sono. È morto amareggiato per la piega che stava prendendo l’Italia dopo la vittoria elettorale del miliardario ridens, e ho avvertito la necessità di fargli un omaggio. Così ho lasciato a metà La crêuza e ho iniziato a scrivere Bacci Pagano. Una storia da carruggi. Ho portato i primi tre capitoli a Frilli che si è detto subito interessato. Terminato il romanzo, l’ho consegnato e dopo due settimane ho ricevuto la fatidica telefonata: "Ci piace, lo pubblichiamo". È uscito nel febbraio 2004, in 1500 copie, e dopo una decina di giorni è andato esaurito ed è stato subito ristampato. Da allora ha fatto sedici o diciassette edizioni, e a quel punto il personaggio seriale si è seduto alla mia tavola con l’intenzione di non alzarsi più. Credo onestamente di poter dire che la scrittura è nata come tentativo di elaborare la sofferenza legata alla perdita. Gli psicoanalisti la chiamano "elaborazione depressiva".

lunedì 18 gennaio 2010

Stieg Larsson, Le ultime lettere


Questo libro non è in vendita. Al contrario, è un regalo che Marsilio, l'editore di Stieg Larsson e della trilogia Millenium, fa a tutti i lettori. Le ultime lettere è una raccolta di e-mail scambiate dallo scrittore svedese con il suo editore, Norstedts, con il quale parla dei dettagli relativi alla trilogia e in particolare al suo ultimo romanzo, La regina dei castelli di carta, pubblicato postumo dopo la sua morte avvenuta il 9 novembre 2004 a Stoccolma, colpito da un infarto mentre si trovava nella redazione di Expo, la rivista antirazzista di cui era stato fondatore. "Mi fa piacere - scrive il 28 ottobre, nell'ultima mail - che Lasse abbia anche notato che cambio genere in ogni romanzo, e proprio secondo lo schema che ha individuato. Non ho dubbi che l'inizio vada aggiustato. Perciò sentiamo pure i tuoi "ma", redattore". La corrispondenza finisce qui, dieci giorni prima della sua morte, mentre il lavoro di editing era nel pieno. Di fatto questi sono gli ultimi scritti lasciati da Larsson. Iniziano il 28 aprile con poche righe che mostrano l'intensità della sua vita di giornalista, attivista politico e scrittore: "Come vi dicevo - scrive ai suoi editori - sarò impegnato praticamente giorno e notte più o meno fino al 15 maggio, quando libro e giornale andranno in stampa, e anche se avrei voglia di dedicarmi ai miei gialli sono talmente occupato che quasi non so in quale città mi trovo". Marsilio ne ha stampate 100mila copie e distribuite in tutte le librerie d'Italia per festeggiare l'uscita del primo titolo del 2010 della collana GialloSvezia: La principessa di ghiaccio di Camilla Läckberg, autrice svedese arrivata in libreria nei giorni scorsi.

domenica 17 gennaio 2010

Battista Luraschi, Codici segreti

Sono forme che cambiano aspetto e significato, che si stravolgono fino a perdere il loro senso originario, per acquisire la forza della materia e del colore. Cartellette in polipropilene, spirali per rilegare dispense, fermafogli in plastica che diventano composizioni geometriche, o che si uniscono nel lavoro paziente della costruzione di un cavallo a grandezza naturale. Il colore, in Battista Luraschi, è forza allo stato puro, rinuncia ai compromessi e alle sfumature, per lasciare spazio alla geometria. La mostra allestita a Villa Calvi di Cantù fino al 20 marzo, racconta oltre trent'anni di questa ricerca, in un percorso di pura astrazione.



sabato 16 gennaio 2010

Mariolina Venezia, Come piante tra i sassi

Sullo sfondo:
bottino di una rapina in gioielleria, valore 400mila euro

Mariolina Venezia ha vinto il Premio Campiello nel 2007 con il romanzo Mille anni che sto qui, ma ora, con Come piante tra i sassi (Einaudi, 256 pagg., 17.50 euro) sembra aver cambiato prospettiva sperimentando una narrativa di indagine che si muove su più fronti, e che inizia con l'omicidio di un giovane dal tenore di vita sopra le righe, con tanto di frequentazioni sbandate e fidanzata segreta. E' il punto di partenza di un girovagare tra esistenze svendute e paesaggi lucani su cui grava la minaccia di un conto alla rovescia.
Questo libro mi è piaciuto per almeno due motivi. Il primo è che finalmente ho trovato un romanzo in cui si svolge un'indagine, che rispetta le procedure giudiziarie e i ruoli degli investigatori, e che rispecchia fedelmente tempi, ritmi e limiti degli inquirenti. C'è un magistrato, Imma Tataranni, con un suo staff di polizia giudiziaria, inquirenti esterni alla Procura che non fanno nulla senza precise disposizioni, e che quando possono si allargano in piccole esibizioni di potere fine a se stesse. Già questo è un grande risultato in un panorama narrativo pieno di agenti scelti che risolvono da soli indagini di mafia, che procedono agli arresti senza chiedere niente a nessuno o che fanno gli interrogatori come se fossero due chiacchiere al bar. Sono aspetti che mi hanno sempre infastidita, perché le imprecisioni e le forzature in una materia che è strettamente tecnica, servono solo a trasformare la Giustizia in una coperta che ognuno tira dalla parte che vuole. Se un libro serve a trasmettere conoscenza, oltre che divertimento, lo deve fare con serietà. Si è mai visto, anche con tutta la libertà che si prende la fiction, un'infermiera che opera un paziente e dirige l'équipe medica? O un muratore che calcola il limite di portata di un viadotto? Invece quando si racconta un'indagine c'è la licenza di rendere tutto credibile: così la finzione che si nutre di possibilismo, fa il paio con le imprecisioni dei tg nazionali e della cronaca improvvisata, con tutto quello che ne deriva.
Altro aspetto che mi ha reso gradevole questo romanzo: Imma Tataranni, la protagonista, sostituto procuratore a Matera, è un personaggio che, messo sulla carta, risulta profondamente simpatico. Ha tutti i requisiti per non esserlo, eppure l'effetto è esattamente il contrario. Con il suo abbigliamento chiassoso, la sua sciatta bruttezza portata con orgoglio, il disordine della vita privata e la poca intelligenza su cui ha fatto un lavoro certosino di consapevolezza e ottimizzazione. Ne abbiamo viste tante così durante le nostre giornate, e sempre ci hanno fatto innervosire, ma questa Imma invece ci piace. Forse perché sta dentro un libro e non alla scrivania accanto alla nostra, ma la sua profondità emotiva rischia di rappresentare quello spessore che ci sfugge in molte persone con cui abbiamo a che fare, e alle quali non abbiamo abbastanza tempo da dedicare.

mercoledì 13 gennaio 2010

Simona Vinci, Nel bianco

Opera di Luca Moscatelli

Le due parole del titolo sono la sintesi perfetta delle sensazioni che racchiude quest'ultimo libro di Simona Vinci, Nel bianco (Rizzoli, 232 pagg., 16.50 euro). Una veloce tappa in Islanda, e poi le settimane in Groenlandia, ad osservare il paesaggio immobile attraverso le finestre orizzontali delle abitazioni, a correre sul ghiaccio trainata dai cani o a percorrere chilometri per cercare il mare. Sta tutto qui, nella sterminata distesa bianca che invade profondamente chi la osserva, che condiziona le esistenze di chi la vive, per scelta o per condizione. Spazi enormi, quasi privi di orizzonte ma anche di movimento. Nessuna variazione di colore, nessun albero, una prospettiva che anziché invitare al senso di libertà, trascina nella condanna della claustrofobia mentale. E' il paradosso della Groenlandia, dove l'assenza totale di confini si trasforma in autoreclusione. La scrittura di Simona Vinci scivola con leggerezza sulle pagine mentre racconta il contrasto forte tra il paesaggio e il modo di viverlo. Le poche attività del quotidiano, l'alimentazione che snobba quasi tutto ciò che è vegetale e arriva da lontano, gli adolescenti che cercano un modo per allontanarsi dall'isolamento in cui sono nati. Ognuno abbandonato a se stesso, a fare i conti con la propria condizione. E' il racconto di un viaggio in solitudine, che scatena riflessioni su altre solitudini.

Quanto è stato diverso questo viaggio in Groenlandia rispetto alle tue aspettative?
La verità è che non parto mai con delle aspettative precise. La Groenlandia era un sogno vaghissimo nella mia testa: ghiaccio, neve, sciamani inuit... Quando sono arrivata, ho capito che è un posto - come tutti i posti - pieno di contraddizioni.
Dal libro si capisce quanto ti documenti prima di partire. Cosa significa per te essere una viaggiatrice?
Una delle poche cose che ho capito nel mio rapporto conflittuale col viaggiare è che l'aspettativa è proprio quella cosa che ti impedisce di vedere davvero il diverso da te. L'ideale sarebbe documentarsi molto poi cercare di dimenticare tutto quello che hai letto e lasciare che il luogo, e le persone che lo abitano, ti raccontino le loro storie.
Quanti modi esistono di vivere e avvicinare la solitudine?
La solitudine è connaturata a ogni essere vivente, anche quelli che vivono in branco. Ognuno nasce e muore solo, separato, anche se vicino agli altri. Si può viverla in un milione di modi diversi... Per quanto mi riguarda, c'è una differenza enorme tra solitudine e isolamento. La solitudine può essere una scelta, e una grande risorsa per imparare delle cose, soprattutto quando si riesce a farla dialogare in modo costruttivo con i rapporti umani e la socialità, in un'alternanza che per ciascuno ha i suoi ritmi e i suoi spazi. L'isolamento invece, causato da fattori esterni o interni, è sempre in qualche misura negativo, frustrante, e motivo di infelicità.

domenica 10 gennaio 2010

Marco Vichi e il commissario Bordelli

Scultura di Valerio Gaeti

Il primo romanzo della serie, Il commissario Bordelli, ha ormai raggiunto il milione e 200mila copie nelle diverse edizioni andate in stampa in questi anni. Fiorentino, investigatore molto cerebrale e scrutatore dei caratteri di chi ronza attorno a una indagine, privo di ogni mezzo scientifico come lo era la polizia degli anni Sessanta, ora Bordelli con Morte a Firenze (Guanda, 344 pagg, 17 euro) è arrivato al suo quarto delitto da risolvere. Una storia fortemente noir negli umori, con un bambino scomparso durante l'alluvione del 1966. Tuttavia il poliziesco rappresenta solo uno dei filoni narrativi di Marco Vichi, quello che a dicembre gli ha fatto vincere il Premio Scerbanenco 2009 al Courmayeur Noir in Festival, che elegge il miglior romanzo poliziesco dell'anno. Perché dollari?, Il brigante, Nero di luna, Donne donne, L'inquilino (tutti Guanda), Per nessun motivo (Rizzoli) e Buio d'amore (Barbes) sono scritture che nulla hanno a che vedere con il genere. Con Bloody Mary (Edizione Ambiente, collana Verdenero), assieme a Leonardo Gori ha raccontato una storia di pesante sfruttamento di manodopera nei campi di raccolta di pomodori della Puglia, mentre con Emiliano Gucci ha pubblicato le due storie contrapposte di Firenze nera (Aliberti).

Che Bordelli troviamo in quest’ultima indagine?
Un Bordelli più amaro e cupo che mai, ma ne ha tutti i motivi. La storia è assai cattiva e i personaggi con cui si trova ad avere a che fare sono torbidi e marci fino al midollo. Anche se in certe pagine si sorride, è certamente un romanzo molto nero…

Ti ricordi il primo istante in cui hai pensato a lui, lo hai creato e gli hai scelto il nome?
Me lo ricordo molto bene. Era un pomeriggio di marzo del 2005. Dopo più di dieci anni che scrivevo in molte “direzioni” diverse, senza alcun risultato editoriale, per la prima volta pensai di misurarmi con il poliziesco, senza un vero motivo. Volevo capire come me la sarei cavata e pensai di farlo con una delle figure più logorate della letteratura di genere: un commissario. Cominciai a scrivere senza sapere chi fosse questo sconosciuto Bordelli, senza sapere chi sarebbe stato ucciso, e senza sapere nulla del colpevole e del suo movente. Dopo qualche pagina ho visto il commissario Bordelli salire sopra un Maggiolino, e ho capito che mi trovavo negli anni Sessanta. La cosa mi è piaciuta, si trattava di ricostruire un’epoca con i suoi ritmi e la sua mentalità. E in più mi ha dato modo di trasferire i racconti di guerra di mio padre nella memoria del commissario.

Nei tuoi tanti modi di affrontare la scrittura, comprese le inchieste giornalistiche, cosa ti ha lasciato un segno più profondo o particolare?
Non riuscirei a fare una classifica, ogni romanzo mi porta in un mondo diverso e mi costringe a scoprire nuovi percorsi. È per questo che mi piace scrivere, per le sorprese che incontro ogni volta.

venerdì 8 gennaio 2010

Hugues Pagan, dentro il noir

Mitraglietta Uzi e Kalashnikov usati nel fallito assalto a un furgone portavalori.

Hugues Pagan è la radice del noir. E' la ricerca di un riscatto quasi obbligatorio, con la svogliatezza di chi assolve un compito che gli è imposto dall'esistenza. I suoi personaggi sono forzatamente relegati ai loro ruoli e spazi: al turno di notte, alla consapevolezza di un miglioramento impossibile, a un passato da cui doversi difendere per sempre. Donne private di ogni emotività femminile, uomini mentalmente randagi.
Il desiderio di giustizia che sopravvive in questi scenari, è qualcosa che deve essere capito ancora prima che osservato. Va cercato nei caratteri schivi, nell'apparente rassegnazione, nella scelta di muoversi al di fuori di quella che dovrebbe essere la vera legalità, ma che nel ribaltamento delle visioni che caratterizza Pagan, spesso è la negazione di ogni falsità e corruzione. Quella da cui lui stesso è fuggito quando ha abbandonato il suo impiego nella polizia francese, denunciandone gli abusi e l'illegalità dilagante. Condannandosi a rappresentare scenari claustrofobici, torbidi, scuri.
Come in Dead end blues (Meridiano Zero, 254 pagg., 8 euro), da cui è stato tratto il film Diamond 13 interpretato da Gerard Depardieu e Asia Argento, dove Mat, poliziotto parigino, scopre che il suo ex collega e amico è diventato uno dei più grossi trafficanti di droga del paese. Oppure in La notte che ho lasciato Alex (Meridiano Zero, 304 pagg, 14.50 euro), tra i suoi più belli, con il suicidio apparente di un senatore e l'ispettore Chess che indaga pur relegato al turno di notte. Chess torna tra tradimenti, compromessi forzati e crudeltà in Quelli che restano (Meridiano Zero, 319 pagg., 9 euro), l'ultimo romanzo pubblicato in Italia, mentre con In fondo alla notte (Meridiano Zero, 190 pagg., 13.50 euro) si cambia protagonista e scenario: un ex poliziotto diventato giornalista e la provincia francese, notturna e cupa forse più della città.
I suoi titoli sono anche altri, in una produzione che sembra raccontare una storia che si ripete, che ci trasmette un clima vero e sotterraneo, e che mostra le tante derive di chi sceglie di non stare mai dalla parte dei buoni.

martedì 5 gennaio 2010

Marino Magliani, La Tana degli Alberibelli

Como, piazza della Tessitrice

Un libro fatto di piani incrociati. Almeno tre storie scorrono in La Tana degli Alberibelli (Longanesi, 329 pagg., 18 euro), ultimo romanzo di Marino Magliani, scrittore ligure di origine e olandese di adozione. La prima va indietro nel tempo fino all'Era Napoleonica, con due ufficiali e un soldato disertori. Tornano dall'Egitto e portano con loro una scorta di hascisc, che hanno imparato ad usare nei decotti, ma anche a fumare nascosti in una grotta che diventa il loro rifugio, la Tana degli Alberibelli. Un salto temporale porta fino agli anni della Resistenza, alle Alpi Liguri che nel 1944 sono uno scenario di violenti combattimenti, con atti di spionaggio e di delazione. Tra i partigiani arriva uno sfollato, che in realtà è un infiltrato dei repubblichini: mandano uno di loro perché individui la spia e la elimini, ma l'infiltrato riesce a sfuggire e si rifugia nella Tana degli Alberibelli. Terzo scenario: un porto della Liguria di Ponente, oggi. Un'opera realizzata con fondi pubblici europei, oggetto dell'ispezione di due commissari incaricati di verificare che il denaro assegnato sia stato utilizzato correttamente. Uno di loro viene ucciso da un cartello criminale che ruota attorno agli interessi del porto. C'è anche qualcuno che si muove sotto la copertura di un inviato di una tv olandese incaricato di trovare il mestolo con cui un soldato napoleonico preparava decotti a base di hascisc: arriva così alla Tana degli Alberibelli.
A questo punto inizia il libro.

Com'è questo romanzo?
Lo definirei introspettivo e di impegno civile. Rispetto alle mie scritture precedenti, è più di indagine interiore che di attualità. L'ho iniziato alla fine degli anni ottanta, e poi abbandonato. Ho sfruttato alcuni spunti per racconti e per altri romanzi. Alla fine era rimasta solo un'impalcatura sbilenca e l'idea di lavorarci. C'era troppa inattualità in questo materiale, avevo bisogno di un ingrediente che mi portasse avanti nel tempo. Tuttavia il mio entroterra non lascia spazio al presente: è decadente, invecchiato nei suoi abitanti, crollato. Mi sono guardato attorno e mi sono accorto che a Imperia stavano realizzando il più grande porto turistico del Mediterraneo. E' diventata la storia che mi mancava.

Cosa ti ha insegnato questo libro?
Ho capito quanto è difficile occuparsi di attualità, scavare in quello che hai attorno. Nel 2008 ho iniziato la mia indagine incontrando di nascosto politici di opposizione e giornalisti. Ho raccolto documenti sulla storia di questo porto, voluto da una lobby che ha consegnato un territorio pubblico a una società fantasma, fatta di scatole cinesi, alle cui spalle ci sono grossi nomi dell'imprenditoria italiana. E' un luogo per pochi, l'ennesima colata di cemento evitabile della Liguria. Tutto questo mi ha fatto scoprire il mio lato civico di scrittore.

Questo romanzo è molto ligure nel carattere e molto maschile nei contenuti. Come mai?
Racconta da dentro il Ponente, dove ognuno ha qualcosa da tenere nascosto agli altri. E' un'immagine che si lega strettamente alla Liguria decadente e molto diversa da quella che si affaccia sul mare, in un entroterra che sta solo a pochi chilometri ma che da sempre è molto distante. La divisione politica tra Savoia e Doria ha segnato una differenza che si trascina ancora oggi. E' una terra di rovi, di montagne e di vegetazione spinosa, attraversata solo da animali, e dove il paesaggio è preservato da questa inavvicinabilità. Riuscire ad affrontare questi rovi fa sanguinare, ma permette di vedere questo mondo così com'è rimasto. Quanto al carattere maschile devo dire che nei miei romanzi non ci sono quasi mai donne. Non è per maschilismo, ma per dare voce credibile a una terra dove gli uomini non hanno donne. Questo li priva di armonia, di esperienza, di capacità di rappresentarsi.

sabato 2 gennaio 2010

Stefano Misesti, Maciste e altre storie


Il quotidiano che diventa surreale nella sua rappresentazione, parodie dell'uomo comune tra tic e abitudini. Stefano Misesti cavalca una commistione tra parola e immagine, con un utilizzo della scrittura che diventa segno grafico quando cambia lingua, tra lettere occidentali e ideogrammi, e perde la sua valenza comunicativa. I suoi personaggi, a partire da Maciste e altre storie (Edizioni Bd, 176 pagg., 15 euro) sono impacciati e incapaci, grotteschi ad ogni gesto. Nelle sculture di Beni Chu prendono forma, passando dalla carta alla materia plasmata. Sono sue le traduzioni in cinese delle parti di testo sempre presenti nelle opere di Misesti, che diventano un ulteriore ed elegante segno sulla tela. Ma per lo spettatore cinese, la grafica sta all'opposto, nella scrittura italiana.

Chi è Maciste?
E' uno dei miei personaggi di riferimento, un rifacimento del Maciste degli anni Cinquanta. E' l'uomo grosso, forte e stupido, che combatte contro tutto: contro il disagio interiore picchiandosi la pancia. Contro il maltempo o contro il videoregistratore. E' la rappresentazione del surreale, come del resto altri miei personaggi come l'Uomo esagitato, supereroe senza poteri, che quando si trova davanti al cattivo inizia a tremare, così viene ignorato o compatito e si salva.
Da illustratore a fumettista. Perché?
E' stata una reazione al lavoro, per potermi esprimere in modo libero: avevo l'esigenza di dare sfogo al mio senso del surreale. Così mi sono avvicinato al fumetto, pur non essendo un grande appassionato del genere. Mi piaceva poter pensare e rappresentare le storie con quel senso dell'umorismo che caratterizza i miei lavori. Poi ha contaminato l'arte, e ora alcuni elementi del fumetto si ritrovano nei quadri. Sono acrilici con oggetti un po' surreali che troviamo attorno a noi, come l'aereo che diventa un pesce o gli alberi del bosco che si trasformano in lische. Il pesce e la lisca mi piacciono come elemento grafico, li uso spesso, ma rappresentano anche un legame con l'acqua e il territorio in cui sono nato, il comasco.
Sul tuo blog, Iconoclasta, cosa troviamo?
E' un mio sfogo, nato tre anni fa per tenermi legato all'Italia dopo essermi trasferito a Taiwan. Poi mi sono accorto che era molto seguito, ed era un ottimo strumento di comunicazione istantanea. Ci sono prevalentemente illustrazioni e vignette. Dalle reazioni dei lettori vedo subito se un lavoro piace: molte storie di Maciste sono passate dal blog prima di finire nel libro.