domenica 21 febbraio 2010

Il cervello delle donne

Sullo sfondo, cervello di una femmina di età giovanile, attivo e ottimamente funzionante, nell'immagine realizzata durante una risonanza magnetica 

Il cervello femminile è geneticamente molto più emotivo, più flessibile quando si tratta di distinguere il bene dal male. Quello maschile più cinico e razionale. Inoltre, nelle donne è stata dimostrata la presenza di una sorta di "interruttore" che, se spento, le rende ciniche come gli uomini. Non è una novità, ma ora il risultato emerge anche da uno studio sviluppato dai ricercatori dell’Università di Milano, guidati da Alberto Priori, in collaborazione con il San Raffaele di Milano e l’Università di Padova, pubblicato on line sul sito scientifico Plos One. Secondo i ricercatori, il cervello morale femminile sarebbe plastico, e il suo funzionamento modulabile con il semplice passaggio di una debolissima corrente elettrica, non percepibile dal soggetto ed assolutamente indolore, applicata sulla fronte. "Questo studio - sostiene Priori, direttore del Dipartimento di Scienze Neurologiche dell'Università degli degli Studi di Milano - conferma la differenza di comportamento morale tra uomini e donne, una diversità che affonda le sue radici nella biologia e nella neuroanatomia, e che è indipendente da fattori culturali, quali la religione e l'educazione. In conclusione, i risultati dello studio, quindi, suggerirebbero che mentre la morale maschile è immodificabile, quella femminile lo è probabilmente per l'esistenza di aree cerebrali che hanno la funzione di "interruttore" su questo tipo di comportamento". 
Consapevoli che uomini e donne si comportano diversamente in situazioni conflittuali, è stato riscontrato che un input esterno come il passaggio della corrente debolissima sulla cute del cranio, interferisce con la nostra capacità di giudizio morale accentuando ancor più tali differenze. Infatti, mentre negli uomini il passaggio della corrente elettrica non varia il contenuto delle risposte a cui sono stati sottoposti i soggetti esaminati, la stessa corrente rende le donne più ciniche e calcolatrici.
 Il cervello morale femminile è dunque più duttile e flessibile, probabilmente per far fronte ai diversi ruoli e ai diversi cambiamenti che la donna è chiamata ad affrontare nella sua vita.
 

La premessa a questo studio, è il saggio della neuropsichiatra statunitense Louann Brizendine, Il cervello delle donne (Rizzoli, 304 pagg, 18 euro), fondamentale per comprendere alcune dinamiche che regolano i rapporti tra i sessi, e arrivare a capire che certe presunte mancanze comportamentali non sono tali, ma semplici conseguenze di una carenza negli apparati cerebrali. "Nel cervello femminile - spiega la Brizendine - il circuito dell'aggressività è più strettamente connesso a funzioni cognitive, emozionali e verbali, rispetto a quello maschile, maggiormente collegato invece ad aree del cervello preposte all'azione fisica... Il cervello della donna conserva ancora l'insieme atavico di circuiti che ha permesso alle sue progenitrici di adattarsi all'ambiente nel modo migliore". Basta dare un'occhiata alle popolazione carceraria per capire quanto l'aggressività maschile supera quella femminile, ma il problema si genera a monte: "In genere l'uomo usa meno parole e ha meno scioltezza verbale, quindi in un diverbio con una donna può trovarsi svantaggiato". Da qui il regredire verso i circuiti dell'ira, anche a fronte del fatto che "il cervello maschile deve seguire una procedura più lunga per interpretare i segnali emotivi... le donne usano entrambi gli emisferi cerebrali per reagire alle esperienze emotive, mentre gli uomini uno solo". 


giovedì 18 febbraio 2010

Gaia Conventi, La morte in pentola

Arcore, Villa Borromeo d'Adda

Nel surreale di una gita in pullman a Ferrara, con anziana Franca che si prende cura di anziana Iole rifilata dalla figlia, le vere protagoniste sono le pentole. Perché la pennellata di colore in questa novella di Gaia Conventi, La morte in pentola (Edizioni Forme Libere, 71 pagg., 11 euro) arriva dall'immancabile tentativo di vendere batterie da cucina mentre la comitiva è in viaggio verso la città d'arte. E' lo sfondo, ma anche l'umore di chi scrive, la voglia di far sorridere mentre si racconta di un omicidio, il gusto di costruire personaggi assurdi ma non troppo.
Uno degli ultimi racconti di Gaia, La morte scivola sotto la pelle, ha vinto il premio Gran Giallo Città di Cattolica, assegnato durante il Mystfest 2009, ed è stato pubblicato nel numero di dicembre del Giallo Mondadori. 

Quali parole usi per descrivere questo lungo racconto e invogliare alla sua lettura?
Da sempre sostengo si possa ridere di tutto e, anzi, sia giusto farlo. Ho applicato questa piccola regola al giallo, quello classico, fatto di indizi e false piste. "La morte in pentola" è una novella gialla che ho scritto per puro divertimento, mio e, si spera, di chi la leggerà. Qui ci sono tutti i miei amori, quello per i dialoghi briosi - che sono solita provare ad alta voce, con buona pace dei miei vicini che mi sentono blaterare da sola - quello per gli intrighi e, infine, per i personaggi stazzonati, irriverenti e terra terra.

Per te cosa significa scrivere?
Ho sentito qualcuno dire che si scrive per necessità, come se la carta contenesse ossigeno supplementare. Devo dire che sono tutto fuorché un'artista, io sono un'artigiana del giallo. Potrei scrivere o non scrivere, ma mi viene bene, e quindi sarebbe stupido smettere. Inventare un giallo è una cosa piuttosto divertente, mi ricorda quando da bambina giocavo coi Lego. Non prendo la faccenda sul serio, scrivere è un'avventura!

Un personaggio a cui sei particolarmente affezionata, di questo o di altri tuo romanzi e racconti?
Sono particolarmente legata a Ugo Passigli, di "Il bandolo della matassa", giallo storico ambientato a Ferrara tra le due guerre (in ebook su ArpaNet). Ugo viene scambiato per Italo Balbo e finisce in un intreccio pericoloso e complicato. Questa è stata la scusa per indagare sul passato della mia città, ma anche per scoprire la vita nelle colonie italiane. Sono una persona ridanciana e curiosa, con una spiccata propensione a cacciare il naso nella storia di quegli anni.


martedì 16 febbraio 2010

Piero Colaprico, Mala storie

Un mese di lavoro per due spacciatori di hascisc: 75mila euro

Scrivere cronaca è raccontare storie. Sempre, ogni giorno. Ascoltare e poi mettere assieme i pezzi, fare una sintesi, guardare negli occhi e cercare di cogliere i pensieri, il non detto. Andare oltre l'istante che ha segnato il protagonismo e ripercorrere la strada del prima. Le paure, le sofferenze. Ma anche il tragico che sconfina nel surreale, l'incredibile. Ogni articolo di cronaca racconta vite, inciampi, rabbie, perdite. La paura di una fuga andata male, il controllo di polizia con il chilo di cocaina nel baule, le traccia lasciata mentre si credeva di aver fatto tutto alla perfezione. Ascolti e poi metti assieme i pezzi, costruisci una trama scegliendo delle parti, qualche aspetto, un momento. Ripercorri i percorsi esistenziali che hanno portato due persone ad essere un assassino e una vittima. Ti chiedi cosa significa essere una vittima, e perché la vita di alcune persone arriva fin lì. Cerchi le spiegazioni, che esistono sempre, anche nelle recite più assurde.
Assieme alle persone ci sono i luoghi, gli sfondi della periferia o del centro città, le figure a margine. Le motivazioni, che spesso ti aspetti chissà quale retroscena, e poi scopri che dietro la cosa grossa ci sta una rabbia piccola, cresciuta, non governata. Esplosa dal niente. Il bello di fare cronaca è scoprire le persone, tutte quante. 
Chi, come Piero Colaprico, la cronaca la fa da venticinque anni per La Repubblica, di storie ne ha raccontate tante. Piccole  e grandi, da trenta righe e da settimane di prima pagina. Tolte dalla loro contingenza, dal loro essere fatto quotidiano, diventano tutte storie. Storie di mala. O meglio, Mala storie (Il Saggiatore, 365 pagg., 18 euro), il volume che raccoglie una selezione degli articoli usciti tra 1985 e 2009, scelti tra le migliaia scritti in questi anni. Si parla di tante cose, di massacri e della "Banda del buco", di migranti e di Eluana. E di un sacco d'altro. Alla fine c'è anche un bel ringraziamento ai colleghi, a quelli con cui lavori bene, nonostante tutto. 

Perché questo lavoro di raccolta di articoli di cronaca?
Non l'ho fatto io, anzi sono stato molto sorpreso, prima della richiesta, poi di quanta passione ci abbiamo messo Aurelio Pino e Andrea Gentile del Saggiatore nello scegliere, su oltre tremila, la loro compilation. Ho visto il libro a cose fatte e, se faccio finta che non siano gli articoli di mezza vita, emerge davvero un quadro, un po' alla Bosch, del cambiamento nella mala, nelle strade, nelle nostre città. 

Quanto il Colaprico scrittore ha attinto dalle storie giornalistiche, ed in particolare dalle sue?
Aver conosciuto davvero chi soffre e soffrirà mette in sintonia con le vittime, aver ragionato con assassini e detective permette di delineare personaggi credibili, aver rubato e continuando a rubare sempre da tutti le loro frasi, mi aiuta nei dialoghi. Senza il lavoro del cronista, il lavoro di scrittore sarebbe stato diverso: diciamo che sono diventato più rapinatore e più zanza nella scrittura. 

Come sono cambiati i protagonisti delle cronache in questi ultimi vent’anni?
Una volta c'era gente che considerava la malavita un mestiere alla luce del sole, oggi tutti tendono ad essere "fantasmi" e, per altro, le tv e la spettacolarizzazione del male rendono molto banali anche le sutuazioni più drammatiche. Spesso i più miseri tendono a mettersi davanti al video, con le lacrime o le invettive o le rivendicazioni. La mia idea è che se loro cambiano, noi cronisti restiamo legati a un imperativo: cerchiamo di restare fedeli alle complicazioni della verità.


domenica 14 febbraio 2010

Yehoshua Kenaz, Ripristinando antichi amori


E' da considerare un classico della narrativa ebraica, scomparso da alcuni anni dalle librerie italiane dopo una prima edizione di Mondadori di oltre dieci anni fa. Ripristinando antichi amori di Yehoshua Kenaz (pagg. 253, 17 euro), torna in una nuova veste editoriale, pubblicato da Giuntina, la casa editrice di Firenze specializzata in opere ebraiche. La scrittura di Kenaz è complessa, segnata dall'esigenza di prendersi il tempo della riflessione, di calarsi nelle atmosfere e nell'emotività, spesso non facile, dei protagonisti. Gli amori e i rancori, gli spaccati di vita che si intrecciano, e che riscrivono realtà silenziose. Quella di una coppia che intreccia un legame clandestino, per esempio. O del vecchio, costretto su una sedia a rotelle, che sembra isolato dal mondo in un appartamento nascosto, ma invece vede e capisce tutto ciò che gli serve. L'amministratore condominiale la cui unica ragione di vita è ormai diventata la guerra ai nuovi inquilini. La giovane cameriera filippina silenziosa e servizievole. Un agente immobiliare innamorato della misteriosa vicina. Succede tutto in un caseggiato di Tel Aviv, dove si incrociano le storie, i piani narrativi, i punti di vista, il vivere caleidoscopico fatto di voci e di suoni, di emozioni vissute e negate, di grandezza e bassezza degli individui. Con un finale all'altezza di ciò che si è vissuto nelle pagine precedenti.


sabato 13 febbraio 2010

Maratona del protagonismo

Forever happy, intsallazione di Silvia Levenson

Guardo spesso le foto su Facebook, le gallery pubblicate dagli “amici”, e sono attratta dall’impietosità delle immagini. Le feste casalinghe soprattutto, i ritrovi in gruppo o le cene. Da un lato ci sono le espressioni terribili e stravolte di alcuni volti: gli occhi a mezz’asta, gli sbadigli non trattenuti, le smorfie del ridere più sguaiato. Immagini che se fosse per loro, per i proprietari di quei volti, mai e poi mai acconsentirebbero a pubblicarle, ma fanno buon gioco a questa specie di goliardia mediatica e accettano di mostrarsi a tutta Italia con espressioni che non gli rendono giustizia né intelligenza. Che vanificano lo sforzo di anni del parrucchiere e dell’estetista, gli investimenti in creme e lifting, magari solo per smussare un minimo difetto. E poi basta una foto per precipitare nella mostruosità. Uomini o donne che siano.
Oppure, all'opposto, il bikini buono per ogni occasione, in modo che anche in contesti che nulla hanno a che fare con la tua vita privata, ti possano vedere - e, si spera, ammirare - buttata su una spiaggia con l'abbigliamento ai minimi termini. Oppure esibire i pettorali che persino in palestra rimangono coperti, mentre invece metterli su Facebook in qualche modo giustifica l'investimento e l'impegno.
Quello che però mi colpisce sono soprattutto le case: le stanze che fanno da sfondo, le cucine in disordine, i copridivani improbabili, i quadri da mercatino dell’ultima ora. A quel punto non so più se è peggio mostrare una foto imbarazzante del proprio volto, o la pentola da cui escono gli spaghetti distribuiti in piatti che fanno capolino alla rinfusa. Le festicciole che sullo sfondo lasciano intravedere la cucina in disordine, le macchie di sugo sul fornello, gli armadietti della dispensa aperti su un disordine di pacchi di pasta e scatole di condimenti gettati alla rinfusa. I piatti di plastica e le mani tutte attorno per non farli cadere quando il cibo pesante sta per debordare. E’ l’intimità di uno stile di vita che provoca immediata repulsione, come qualsiasi forma di sporco o qualunque immagine che lo evochi, anche lontanamente. Ho visto cucine di ospedali, di carceri, mense scolastiche, luoghi destinati alla preparazione del cibo collettivo, dove sono al lavoro tante mani: in ognuna di queste avrei mangiato senza problemi. A tante cucine che vedo su Facebook, preferisco il sano digiuno.
Ci sono poi i salotti e soggiorni, gli arredamenti di dubbio gusto, il nazionalpopolare delle case degli italiani, i libri tanti gettati là, e i libri pochi che mettono tristezza. I centrotavola all’uncinetto. I quadri a tema boschivo ottocentesco. I cani e i gatti appollaiati ovunque. Mi chiedo il senso di esporre al giudizio nazionale un gusto personale che, così esibito, diventa sciatteria. Che ci si potrebbe accontentare di tenere per sé e per gli amici più intimi con i quali ci piace condividere in nostri spazi e il nostro senso del bello. Ma soprattutto mi chiedo se questa popolarità ai minimi termini, che nasce da una sorta di obbligo morale al protagonismo, basta a giustificare tutto questo.

domenica 7 febbraio 2010

Karl Marx, Elogio del crimine

Sono poche pagine, ma io lo considero un gioiellino. Anzi, diciamo pure che è un unico concetto di poche frasi, trasformato in libro perché allungato da una prefazione e da un indice finale. Lo leggo, lo regalo, lo cito. Ne apprezzo la sintesi e l'ironia, ma anche la sensatezza. E' l'Elogio del crimine di Karl Marx, con prefazione di Andrea Camilleri (Nottetempo, 18 pagg., 3 euro). In queste poche righe, il filosofo tedesco si chiede quante persone traggono beneficio dall'esistenza del crimine, e nella risposta traccia un elenco insospettabilmente lungo e corposo. "Un delinquente produce delitti": e fin qui ci siamo. Ma allo stesso tempo produce "diritto criminale, e con ciò produce anche il professore che tiene lezioni sul diritto criminale, e inoltre l'inevitabile manuale, in cui questo stesso professore getta i suoi discorsi in quanto merce sul mercato generale". Il delinquente dunque produce ricchezza, in tante forme. Polizia e giustizia, giudici, studiosi del diritto: tutto si trasforma in categorie professionali, e quindi in posti di lavoro. Chi delinque, chi non rispetta le regole sociali e la proprietà altrui, è stato e continua ad essere fonte di ispirazione per tanta parte dell'arte e della narrativa. Soprattutto, ricorda Marx, "Il delinquente rompe la monotonia e la banale sicurezza della vita borghese". Sprona le forze produttive: le serrature sarebbero mai servite senza il bisogno di tutelare dai ladri ciò che ci appartiene? E cosa dire poi dei sistemi di protezione, di tutela e di difesa? Dei numerosi e sofisticati studi per impedire la contraffazione delle banconote e dei tanti metodi di pagamento? Un mondo di ricerca scientifica, figure professionali, comparti produttivi, che si è moltiplicato grazie ad una sola figura sociale, quella del criminale.


lunedì 1 febbraio 2010

Inachis Io, Dire Fare l'Amore


Il sottotitolo è Racconti post-erotici, ma in questi quindici racconti di Dire Fare L'Amore (10 euro, 158 pagg., Progetto ilmiolibro.it) ho trovato anche e soprattutto desideri, delusioni e incomprensioni sentimentali. L'erotismo spesso è conseguenza di situazioni tratteggiate, solo saltuariamente evocato in modo esplicito, e sempre senza sbandamenti. Al centro di questo raccontare di Inachis Io - pseudonimo dietro al quale si nasconde un assiduo blogger, arrivato alla pubblicazione di questo primo libro attraverso un progetto su internet - ci sono gli schemi comportamentali di fondo di chi si misura con i sentimenti, di chi li rincorre ad ogni costo, o di chi li svaluta e se ne pente. Ci sono i matrimoni che viaggiano su binari morti, le occasioni perse che riaffiorano anni dopo, la reminiscenza amareggiante di un dettaglio visto in una sala operatoria, una vendetta la cui sobrietà seppellisce il cattivo gusto di chi sta dall'altra parte della parete. Ci sono i rapporti tra uomini e donne, gli incroci di generazioni, le incomprensioni e i pentimenti, gli affetti profondi. Una scrittura leggera, qualche pennellata di ironia, un passaggio attraverso il macabro che si concede qualche pagina, la passione che aleggia su tutto.

Perché l’erotico?
Ho inziato a scrivere racconti erotici per ritrovare, nella mia vita di coppia, le parole dell'amore che spesso si rischia di dare per scontate e lasciar seccare nel cuore. Poi mi sono accorto che questi racconti potevano avere una dimensione più ampia e mi ci sono dedicato con maggior continuità. Ho sempre visto l'erotico come un modo non tanto per parlare di "cose sconce" (anche perché per me non lo sono affatto), quanto piuttosto per arrivare al cuore delle situazioni e mettere letterlamente a nudo i personaggi. E' la situazione della vita in cui siamo maggiormente noi stessi e nella quale emergono, a volte con cruda verità, i nostri limiti e le nostre intenzioni. Tutt'altro è invece il porno e un certo erotismo quasi didascalico da cui cerco di tenermi il più lontano possibile. In genere fermo le mie storie sulla porta della camera da letto, perché penso che da lì in poi il lettore preferisca immaginare da solo. Diciamo che io slaccio i primi bottoni, poi la fantasia fa il resto.

Tanti personaggi, tante situazioni che non si sfiorano mai, ma che sembrano far parte di un unico dialogo. Da dove arrivano questi spunti?
Credo di essere un curioso della vita. Quando parlo con una persona mi chiedo sempre come sarà nel privato: la immagino rientrare sola a casa, appoggiare il cappotto, telefonare. Magari anche fare l'amore. Da tante letture, conversazioni, confidenze, ho ricorstruito dei personaggi che non hanno nulla delle persone vere da cui sono nati, eppure ne conservano una traccia, una radice. Questi personaggi sono per forza di cose scollegati tra loro, come viaggiatori in una città immaginaria. Mi piacerebbe però, un giorno, organizzare una grande festa e invitarli tutti.

Nel tuo rapporto tra la scrittura e la pubblicazione, sia on line che su carta, viene prima la tua voglia di raccontare o il giudizio di chi ti leggerà?
Sincero sincero? Credevo mi importasse poco del giudizio di chi legge. Ma non è così. Sono contento quando trasmetto un'emozione o quando mi dicono che un racconto ha smosso qualcosa. E in questo l'online, con la possibilità dei commenti, è fantastico: crea un rapporto molto più diretto. Però è anche vero che ho voglia di raccontare. A volte quasi un'urgenza, quando una storia mi gira in testa e sento che, se non la scrivo, rischio di fermare qualcuno per strada e raccontargliela. Così, in piedi sul marciapiede!