martedì 27 aprile 2010

Simone van der Vlugt, All'ombra di mia sorella

Lecco, il lungolago e il Resegone

Rotterdam, casa famiglia e lavoro perfetti, l'insegnamento in una scuola difficile, una sorella che fin da piccola è stata il problema: quella che decideva, che dominava, che sceglieva. Ora Marjolein e Marlieke sono adulte, ognuna a governare le proprie ansie, consapevoli o ignorate. All'ombra di mia sorella (Kowalski, 368 pagg., 17 euro) è il secondo noir dell'olandese Simone van der Vlugt, dopo La ragazza che viene dal passato. La trama subisce un'accelerata improvvisa quando Marjolein, la più docile delle due sorelle, viene minacciata da uno studente armato di coltello, e poi uccisa da un colpo di pistola. Sarà Marlieke a cercare l'assassino, sgombrando subito il campo dalle false ipotesi, in una ricostruzione in cui vince lo scandagliare psicologico, la ricerca di quello che si è vissuto e del non detto, che custodisce più di quanto si potrebbe immaginare. 

Cosa rappresentano il thriller e il noir nella cultura olandese?
E' molto popolare, il genere narrativo più venduto, ed è scritto soprattutto da donne. Una decina di anni fa c'erano soprattutto uomini che scrivevano thriller in Olanda, ma ora sono stati sorpassati dalle donne.

Qual è l'elemento psicologico in grado di creare forte tensione, punto di partenza per un romanzo?
Nei miei romanzi gli elementi psicologici sono fondamentali e legati alla tensione causata dalla minaccia e dall'omicidio. Tuttavia questi ultimi due aspetti non sono quelli più importanti. Quello che mi interessa sta nella domanda: come mai? Perché qualcuno commettere un crimine? Sfondo e contesto, infanzia, tutti questi aspetti sono basilari per quanto riguarda i miei personaggi.

Da dove arrivano i tuoi protagonisti?
Ogni personaggio dei miei romanzi rappresenta una parte di me stessa. Mi sono sempre calata nelle diverse situazioni, chiedendomi che cosa avrei voluto e come avrei reagito. A volte critico quello che avviene nella società, ed è una mia forma di denuncia. In altri romanzi descrivo le mie paure nella vita, come finire in acqua con la mia macchina, parcheggiare in un luogo deserto o incontrare un criminale senza saperlo.

sabato 24 aprile 2010

Giancarlo Majorino, La dittatura dell'ignoranza

Barzanò (Lc), tomba di Luciano Manara (1825-1849)

Parla di "strano connubio tra Dittatura e Ignoranza" e vale la pena di rifletterci. Giancarlo Majorino, poeta milanese classe 1928, tra i fondatori della Casa della Poesia e docente di Estetica all'Accademia di Belle Arti, in un breve ma profondo testo pubblicato da Marco Tropea, individua i punti nevralgici di una strategia al ribasso di gestione della consapevolezza collettiva. Anzi, per essere precisi, di annientamento del bisogno di una consapevolezza individuale, che va a beneficio della maggiore gestibilità di una società omologata in tutto. Il libro si intitola La dittatura dell'ignoranza (83 pagg., 10 euro) e parla di televisione, di arte, di grande letteratura e di impoverimento della lingua e di moltissimo altro. Sono brevi capitoli da cui escono con forza osservazioni acute, capaci di creare una visione organica di ciò che sta accadendo alle nostre ambizioni intellettuali. Linguaggio non facile il suo, privo o quasi di punteggiatura, che spesso comunica attraverso suggestioni, ma carico dell'incisività di cui è capace chi ha osservato a lungo, e ha saputo isolare l'essenza del mondo e delle cose. Tutto è riconducibile a questo indirizzo globale, dove l'ignoranza - anche considerata nel suo senso più strettamente etimologico - si sta imponendo come un regime silenzioso, condizione di fondo per garantire altre forme di dominio. Gli strumenti variano e non sono relegati alla sola sfera intellettuale: la precarietà, osserva Majorino, sta "trasformando la vita di ciascuno in vitetta". E' uno dei grossi meccanismi di assuefazione: "respiriamo e sbatacchiamo nella precarietà, chi a livello di lotta quotidiana, chi addirittura a livello di sopravvivenza". Ed è da questo connubio tra dittatura e ignoranza che deriva "la naturalezza della natura artificiale, ormai più vera del vero" con i suoi "condizionamenti, semidivertimenti e specchi di ogni formato". Il non adeguamento è difficile, forse impossibile, perché tutto ci permea e governa anche le nostre migliori intenzioni. Occorre spostarsi, dice Majorino: "muoversi su un terreno non previsto, liberamente e autonomamente generando, eventualmente anche ironizzando, qualcosa di impreveduto, qualcosa che disorienti".


domenica 18 aprile 2010

Paola Casella, Cinema: femminile, plurale


E' un ruolo trasversale e totalizzante. Passa attraverso i film, le serie tv, i cartoni animati, con un denominatore comune e nuove connotazioni: la donna, così come è rappresentata sul grande schermo, da un lato è motore del divenire della storia, dall'altro rappresenta la capacità di creare legami solidali e di mantenere alta la determinazione, per  progredire verso qualcosa che possa essere sempre migliore. In questi ultimi dieci anni la figura femminile ha avuto un ruolo preciso nel cinema, una evoluzione dai significati molto forti, come mostra Paola Casella, critico cinematografico, che in Cinema: femminile, plurale (Le Mani Edizioni, 103 pagg. 14 euro) analizza decine di film che segnano il passaggio dalla rappresentazione di un femminile legato a frustrazioni, disparità e ancoraggio ai ruoli che ancora caratterizzava le trame di fine Novecento, alle aperture di questi ultimissimi anni. Così l'intuito e la saggezza, il nuovo senso della maternità, gli eroismi che cambiano volto, diventano gli strumenti di una analisi che racconta le predatrici e le nuove lolite, la femminilità "visionaria" di di Stanley Kubrick, il bisogno di un controllo sociale che passa attraverso nuove forme di umiliazione, e poi le cattive: le donne sbagliate, sgradevoli, negative.

In che modo conta la bellezza nell'immagine della donna sul grande schermo, e quale estetica è privilegiata in questo momento?
La bellezza sul grande schermo conta ancora moltissimo, soprattutto per le donne. Ma è di almeno due tipi: quella costruita a tavolino dal chirurgo plastico, che si adegua a standard uniformi e toglie espressività al viso delle attrici, e quella che, oltre ad essere un regalo di Madre Natura, è lo specchio di un’anima e di una personalità. Un esempio recente del secondo tipo di bellezza è Rachel Weisz, l’attrice inglese vincitrice dell’Oscar come miglior attrice non protagonista per The Constant Gardener e ora protagonista di Agora di Alejandro Amenabar, dove interpreta il ruolo della filosofa neoplatonica Ipazia. Weisz è certamente bellissima, ma la sua è une bellezza vera, morbida (durante le riprese di Agora aveva appena dato alla luce un figlio), caratterizzata da un viso fortemente espressivo che non conosce bisturi, e il cui aspetto giovanile (l’attrice è vicina ai 40 anni, ma ne dimostra molti di meno) è dato da quella luce interiore che ben si adatta anche al suo personaggio idealista in Agora. Viceversa in Scontro fra titani, per restare nell’ambito delle nuove uscite cinematografiche, la dea Io, interpretata dalla bellissima venticinquenne Gemma Arterton, ha il labbro superiore evidentemente gonfiato dal silicone: possibile che una dea dell’antichità avesse bisogno dell’aiutino del chirurgo? E dove lo avrebbe trovato, il chirurgo, nell’Olimpo?
E' più forte la tv o il cinema nella creazione di modelli duraturi?
La domanda è ben posta perché la parola chiave è “duraturi”. Sul breve periodo infatti la televisione stravince, e ci impone modelli femminili usa e getta, sia dal punto di vista estetico che da quello etico, per usare una parola grossa. Il cinema invece crea da sempre modelli femminili che, se riusciti, si imprimono permanentemente nell’immaginario del pubblico, soprattutto quando incarnano un archetipo, o simboleggiano un particolare periodo storico. Questo vale tanto per i modelli positivi che per quelli negativi: nel mio libro infatti parlo sia delle donne visionarie al cinema, delle eroine e delle madri coraggio, quanto delle arpie, delle femme fatale, delle madri crudeli. Le star cinematografiche che sono riuscite a diventare icone vengono imitate molto più a lungo delle star del piccolo schermo: basti pensare a Audrey Hepburn, simbolo di una femminilità intelligente e raffinata, il cui faccino compare ancora oggi sulle nostre borsette e a cui si ispira anche Penelope Cruz nell’ultimo film di Pedro Almodovar, Gli abbracci spezzati. O per contro a Marilyn Monroe, simbolo della femminilità sensuale ma vulnerabile, il cui celebre abito bianco in Quando la moglie è in vacanza è ancora riprodotto dagli stilisti di mezzo mondo, e il cui fisico da pin up è imitato da molte soubrette, spesso con l’aiuto del chirurgo plastico di cui sopra, dimenticando che ciò che rendeva memorabile Marylin era l’imperfezione tutta naturale del suo corpo generoso e la fragilità disarmante che si leggeva sul suo viso mobile non paralizzato dal botulino.

Cosa caratterizza il cinema italiano rispetto a quello internazionale nel raccontare le donne?
Le attrici italiane, che negli anni Quaranta e Cinquanta hanno rappresentato in tutto il mondo la femminilità prorompente, l’istinto materno incontenibile e la sensualità mediterranea, nel cinema d’autore dagli anni Settanta in poi hanno incarnato un femminile più tormentato e conflittuale, in cerca di una nuova definizione, con un accento curioso sulla difficoltà a gestire il proprio ruolo di madre: a questo proposito Valeria Golino ha dato spesso volto e fisicità a mamme inadeguate (come in L’albero delle pere, Respiro, La ragazza del lago, o in Giulia non esce la sera, per citare qualche titolo), raccontando un cambiamento epocale nel nostro paese, tradizionalmente “mammista”, e oggi invece assai poco interessato ad aiutare le donne italiane, soprattutto le lavoratrici, nel loro essere madri. Questo cambiamento risulta più drammatico nel cinema italiano che in quello degli altri paesi, dove pure la femminilità è rappresnetata negli ultimi anni come “in transizione”, proprio perché l’archetipo (spesso sconfinato in stereotipo) femminile italiano è sempre stato così forte e vincente da identificare nella donna italiana, formalmente “sottomessa” ad una società maschile, regina del privato, dell’intimità e del focolare domestico (per usare espressioni vecchio stile). Per contro il cinema commerciale (quello dei cinepanettoni e dei cinecocomeri, per intenderci) continua anche oggi a raccontare le donne attraverso il desiderio degli uomini, dandone un’immagine stereotipata e lontana dalla realtà delle tante italiane che si impegnano seriamente nel lavoro e nella famiglia, e il cui criterio di femminilità non è quello esibito della velina ipersessuata. In generale però le donne nel cinema italiano, con le dovute eccezioni, faticano ad essere protagoniste, sia nella forza lavoro dell’industria cinematografica, dove sono numerosissime ma poco visibili e raramente in grado di prendere decisioni importanti, sia sul grande schermo. Probabilmente è in conseguenza del fatto che i registi e i produttori sono soprattutto uomini, e che circola la convinzione che un film con una protagonista femminile sia poco gettonato al box office: quando invece gli Stati Uniti ci stanno dimostrando che una protagonista, per di più in età avanzata, come Meryl Streep ha decretato il successo al botteghino di commedie da grande pubblico come Mamma mia! e E’ complicato.

venerdì 16 aprile 2010

Ariel Magnus, Un cinese a Buenos Aires

Palazzo Terragni, progetto razionalista del 1932
 oggi sede del comando provinciale della
Guardia di Finanza di Como

Anche Buenos Aires ha la sua cinatown, le tv locali che cedono al sensazionalismo e gli incendiari che girando di notte con tutto il kit del dolo perfetto. Con questo mix di base, l'argentino Ariel Mangus, ha imbastito un thriller surreale, Un cinese a Buenos Aires (Gran Via, 264 pagg, 16.50 euro). I protagonisti sono un giovane argentino reduce dalla testimonianza a un processo e il suo sequestratore (nonché imputato), un cinese  accusato di essere l'autore di undici incendi dolosi nei negozi. Mangus parte da un fatto reale, cede alla deriva del thriller ed esplora una città nella città, racconta l'immigrazione dai retrobottega, disquisisce sui luoghi comuni più radicati. 

Qual è il fatto reale che ha suggerito l’idea di questo libro?
Nel 2006 in diversi luoghi di Buenos Aires c’è stata una serie di incendi, tutti in negozi di mobili, tutti nel cuor della notte, finché la polizia ha fermato un cinese in bicicletta (Un cinese in bicicletta è il titolo originale del romanzo, NdT) che aveva con sé bidoni di benzina, fiammiferi (da cui il soprannome Cerino) e pietre per rompere le vetrine. Si trattava di un sospetto così perfetto da destare dei sospetti. E di sicuro ha destato l’interesse di tutti, compresi vari scrittori che infatti l’hanno messo nei loro libri. Nel mio caso, sono arrivato a occuparmi di quella storia perché volevo scrivere un libro-reportage sugli immigrati cinesi in Argentina, un’idea che le case editrici rifiutarono con assoluto entusiasmo. È per questo che, a mò di vendetta, ho deciso di scrivere la storia di Cerino in forma di romanzo.

Quanto la televisione può essere determinante nella nostra vita, e quanto ne subiamo le conseguenze?
Non ho un televisore, tuttavia vengo a sapere più o meno tutto quello che accade in televisione, il che mostra fino a che punto influisce sulle nostre vite, persino su quelle di coloro che non la guardano. E il fatto di non essere al corrente di ciò che sta succedendo alla televisione può essere determinante, nel senso che ci fa sentire emarginati in molte situazioni sociali. Proprio come le catene via mail, la tv genera un’omogeneizzazione dell’esperienza che fa sì che tutti possiamo avere degli argomenti di discussione (perché abbiamo visto la stessa trasmissione), e al tempo stesso ci riduce a persone molto meno interessanti, cioè con meno cose da dire. Personalmente la cosa che mi fa più paura della tv è il rischio di rimanere intrappolato nel suo sistema di riferimenti, e che di fronte a certe situazioni mi venga in mente un jingle pubblicitario o qualcosa che ho sentito dire da qualche conduttore oligofrenico, cosa quasi inevitabile se uno passa parecchio tempo di fronte allo schermo. Però insomma, per molta gente è una grande compagnia, e personalmente senza le partite di calcio (che guardo, per internet o al bar o a casa di mio padre) sarei molto meno felice.

L’ironia è un’arma, si dice. Ma cosa combatte?
Credo che l’ironia sia in primo luogo un modo di esprimersi e di pensare, che più che combattere cerca di attrarre il prossimo verso le proprie posizioni, di farlo passare dalla propria parte strizzandogli l’occhio. Dicendo quello che penso attraverso il suo opposto, mettendolo per così dire tra parentesi e con un segno meno davanti, cerco di fare in modo che l’altro arrivi alla mia opinione come se stesse facendo tutto il percorso che lo conduce a quella conclusione. Credo che uno dei vantaggi dello humour sia precisamente quello di obbligare l’altro a fare la “fatica” di pensare, anche quando si tratta di un percorso di pensiero già prestabilito da chi sta utilizzando l’ironia. Se si usa l’ironia come un’arma, in ogni caso è per combattere la solennità, che a me fa sempre venir voglia di ribellarmi, persino se serve per esprimere opinioni con cui sono d’accordo.

mercoledì 14 aprile 2010

Matteo Di Giulio, Quello che brucia non ritorna


Nella foto: mezzo chilo di cocaina e un chilo di marijuana

Si è portato dietro il rancore, soprattutto, ma anche un passato dal quale non riesce a scollarsi, come se il divenire del tempo e delle cose fosse una colpa. E' tornato da Amsterdam per ritrovare una Milano destinata a deluderlo, e ad alimentare la sua distanza. Mentale, soprattutto. Davide Smalley è una creatura di Matteo Di Giulio, protagonista del suo secondo romanzo, Quello che brucia non ritorna (Agenzia X, 223 pagg., 15 euro). Arriva da un'epoca carica, esasperata, priva di leggerezza, dove la superficie non aveva spazio. Erano gli anni Novanta delle controculture, delle periferie, della voglia di lanciare messaggi. L'indagine che lo obbliga al ritorno sarà molto di più di una rincorsa di una giustizia nella quale non crede. E' un'immersione nel passato, un confronto perdente con l'idealismo, la perdita delle tracce che lo legano al suo vissuto.

Perché “romanzo hardcore”?
Perché il mondo di Quello che brucia non ritorna è un sottobosco musicale dove il genere predominante è l'hardcore/punk di metà anni Novanta. Ma hardcore per me significa anche rabbia grezza, velocità, sincerità, senza filtri, ed è il sinonimo ideale per un romanzo dove nostalgia e vendetta vanno a braccetto. Smalley si aggrappa alla ricerca degli ideali, o presunti tali, di un’epoca che nel frattempo si è evoluta.

Cosa impedisce a Smalley di adattarsi al piano di realtà che lo circonda e di cercare altri punti di riferimento?
Smalley è un controsenso. Ha vissuto un'epoca di petto ma pur sempre nell'ombra del suo miglior amico, il vero leader. Vive di dubbi, era in un certo senso un emarginato allora, e lo è ancor di più oggi, perché annaspa nei ricordi, nei rimpianti, ha troppi conti in sospeso, con se stesso e con la sfortuna, per poter capire dove andare. Il suo viaggio, il ritorno a casa dopo dodici anni passati da esule, potrebbe servirgli come catarsi. Ritrovare il suo passato è un modo per ripensare il suo futuro, liberarsi da quei fantasmi che lo tormentano continuamente. Finché Smalley non scrosta la maschera del ragazzo ribelle che era, non ha possibilità di affrancarsi da un peso spirituale e generazionale che si è autoimposto.

Cosa ti ha colpito maggiormente di quell’epoca che racconti?
La voglia di comunicare, la capacità di non fermarsi di fronte a ostacoli spesso ostici, l'unione. Paradossalmente oggi che abbiamo internet, i voli low cost, la televisione via satellite, il mondo sembra più frammentario, più disgregato. Allora si dovevano fare salti mortali per stringere legami, si usavano carta, penna e francobolli, non c'erano i telefoni cellulari, eppure si rimaneva in contatto in maniera più solida. Ogni occasione era preziosa per creare opportunità, a tutti i livelli, sia per divertirsi che per intraprendere sentieri sociali, culturali o politici. Oggi è tutto più omologato, si preferisce seguire binari già tracciati dall'alto. E questo secondo me è un vero peccato visto quanto sarebbe facile oltrepassare tanti limiti.

lunedì 12 aprile 2010

Marina Visentin, Biancaneve

(Foto di Giovanni Zucca)

E' il nero assoluto, la mancanza e l'impossibilità di un riscatto. L'incapacità di un desiderio portato avanti seguendo un moto interiore e profondo. Pagina dopo pagina, è la costruzione scientifica di un annientamento. Servono a questo i delitti in Biancaneve, noir d'esordio di Marina Visentin (Todaro editore, 158 pagg., 15 euro). Anzi, il delitto. Quella morte iniziale che scatena la più macroscopica incapacità di costruirsi un sé, di prendere una decisione, di mettere fine a una caduta nel vuoto. E' tutto claustrofobico e chiuso, legato rigorosamente a scenari interni - fisici e mentali - dai quali la protagonista non si allontana mai. Non bastano gli accenni a un lavoro di insegnante mal vissuto a togliere quella giovane donna a cui mai viene dato un nome, dalla condizione di clausura domestica in cui consuma i suoi giorni. Succede tutto all'interno: di se stessa, dei luoghi in cui vive. Gli altri sono invece proiettati all'esterno, catapultati in una superficialità fatta di frequentazioni, di presunte amicizie, di professioni inventate: lo stesso delitto che scatena gli accadimenti successivi, avviene fuori. Distante da tutto. Tenuto alla larga da ogni possibile empatia attraverso una descrizione sommaria. L'assenza di chi legge dal luogo in cui tutto avviene, è recuperata con una cronaca essenziale, che deve bastare. Perché il vero delitto deve ancora arrivare, consumato in un'esistenza che si degrada ad ogni pagina. 

Chi è Biancaneve?
Prima di tutto una donna senza nome, che nella grande sala da ballo della vita ha scelto la parte della tappezzeria. Una donna fragile, cresciuta con l’idea di non essere all’altezza, di non valere abbastanza, di non avere diritto a un proprio posto nel mondo. Una donna che non si ama e non si stima, desidera tutto ma in fondo non vuole nulla, e finisce col coltivare solo l’erba grama dell’invidia e della collera muta. Una donna nata vittima, ma non per questo innocente, che ha deciso di passare la sua vita all’interno di un cono d’ombra, giocando di rimessa alle spalle dell’amica più bella o dell’uomo più forte. Una donna sgradevole, passiva, inerte, cattiva, con la quale è difficile solidarizzare, apparentemente impossibile identificarsi. Ma il suo volto candido, incorniciato di lunghi capelli neri, proprio come la Biancaneve della fiaba, è uno specchio scuro che riflette più di quello che vorremmo. Le nostre paure, le insicurezze, le angosce, le emozioni nere, il buio dei sentimenti che potrebbe trascinare verso l’abisso chiunque di noi.

La cattiveria tra donne è uno dei temi iniziali del libro. Su quali altri aspetti del femminile ti sei voluta soffermare?
Sì, certo, la cattiveria è una chiave di lettura fondamentale nel rapporto che si stabilisce fra i tre protagonisti del mio libro. Due donne e un uomo, in fondo il più classico dei triangoli, anche se giocato in modo un po’ diverso dal solito. Ma in realtà il tema più importante per me è quello della violenza. La violenza che tante, troppe donne, subiscono ogni giorno in Italia. E quasi sempre non a opera di uno sconosciuto, magari extracomunitario, come certa propaganda politica vorrebbe farci credere, ma dell’uomo che hanno sposato, con il quale hanno deciso di vivere e di mettere al mondo dei figli, che ha promesso di amarle e proteggerle. Ci sono periodi in cui sembra di assistere a una vera e propria strage quotidiana, di donne uccise da mariti, fidanzati, fratelli, padri… che naturalmente vengono poi descritti da parenti e vicini di casa come uomini tranquilli, normali, integerrimi, insospettabili! Ecco, a me non interessava tanto parlare della cattiveria degli uomini che esercitano la violenza ma della complicità delle donne che quella violenza la subiscono, senza denunciarla, senza ribellarsi, senza andarsene sbattendo la porta. Volevo indagare il fondo nero dell’animo femminile, fatto di inerzia, di passività, di gabbie mentali che spesso possono costringere addirittura più di un burqa.

Cosa significa per te scrivere noir? 
Risponderei con una domanda: che cosa rende noir una storia? Non un certo tipo di personaggio, una determinata situazione o ambientazione, o un preciso meccanismo narrativo, ma piuttosto un sapore, una sensazione, un’inquietudine dello sguardo. Il noir è più un’atmosfera che uno schema, forse per questo mi piace particolarmente. Anzi, mi è sempre piaciuto. Sia al cinema che nei libri. I gialli dipende, a volte mi piacciono, a volte no. Le storie noir mi affascinano sempre, perché sono una lente attraverso la quale vedere il mondo, i rapporti fra gli uomini e le donne, fra gli uomini e il potere, le donne e il denaro, i padri e i figli, le madri e le figlie, insomma praticamente tutto, o quasi. E si tratta di una lente molto potente, perché capace di indagare il male, il dolore, la sofferenza, la violenza. Di tutti i generi, il noir mi sembra sia quello che più eccede le regole, e meno si lascia contenere dentro una scatola di istruzioni rigide. Insomma, un bel romanzo noir è sempre qualcosa di più della semplice somma dei suoi ingredienti.

domenica 11 aprile 2010

Stefania Nardini, Jean Claude Izzo. Storia di un marsigliese


Scrittore, soprattutto. Ma anche molto altro: giornalista, attivista politico, sceneggiatore cinematografico, organizzatore di eventi culturali e persino autore del testo di una canzone.  Jean Claude Izzo, scomparso nel 2000 a Marsiglia, città dove era nato, è stato un personaggio così sfaccettato da essere quasi sfuggente, difficile da conoscere in tutte le sue pieghe. Stefania Nardini, giornalista e scrittrice, con il saggio a lui dedicato - Jean Claude Izzo. Storia di un marsigliese (Perdisa, pagg. 176, 14 euro) - si infila nella sua vita e cerca di trarne un ritratto inedito, fatto di giornalismo tenace alla ricerca di ciò che più caratterizza il vivere contemporaneo, di spaccati di vita privata e di genesi delle opere più importanti, quella Trilogia Marsigliese radice del noir mediterraneo, con protagonista il poliziotto Fabio Montale, che da sempre è la parte delle sue opere più letta e conosciuta (Casino Totale, Choumo. Il cuore di Marsiglia e Solea). Collocato sullo sfondo di una città che ha tanto da dire, il saggio di Stefania Nardini contiene poesie di Izzo che compaiono per la prima volta in italiano, e altri inediti, come l'inizio del rapporto con la rivista Gulliver, che pubblicò il suo primo racconto diventato poi il romanzo Casino Totale.  

Innanzi tutto, perché questo legame con Izzo? 
E’ una domanda che andrebbe posta a tutti coloro che lo amano. In Izzo ognuno può trovare qualcosa che gli appartiene. Personalmente ne ho apprezzato l’opera perché ho trovato il giornalista, il militante, l’uomo con le sue contraddizioni e una grande libertà. Infatti l’idea di ricostruire il suo percorso nacque anni fa da un sogno. Una sorta di premonizione che mi portò a vivere a Marsiglia.

Qual è l’aspetto della sua vita che ti ha maggiormente colpita e che hai avuto più piacere a raccontare? 
Devo dire che è il personaggio nel suo insieme che mi ha colpita. Non esiste un aspetto di Jean Claude che sia in netta contrapposizione con un altro. Izzo è Marsiglia. La città meticcia. E lui è un rital (immigrato italiano), figlio di un napoletano e di una spagnola. Genitori con una storia che diventa la sua, che diventa la storia di un marsigliese che vive questo suo essere nabo - figlio di napoletano - con grande sensibilità. La stessa che si ritrova nei suoi articoli, nelle sue poesie nei suoi romanzi. Izzo guarda la vita reale. Ci si sporca le mani senza paura. Da cronista di razza che poi diventerà scrittore.

Marsiglia è diventata anche la tua città: questo innamoramento viene prima o dopo il tuo grande interesse per Izzo?
Tutto ciò è legato ad una serie di fatalità e di coincidenze. Avevo letto Izzo. Mi addolorava l’idea che una persona del suo spessore umano, della sua capacità letteraria, se ne fosse andata. Cercai le sue tracce. Contattai Sebastién, suo figlio, andai a Marsiglia. Dovevo restarci due settimane che diventarono circa cinque anni. Del resto non è facile raccontare Marsiglia, e quindi Izzo, senza aver vissuto la città. La mia città. L’unico luogo dove mi sento a casa. Del resto marsigliesi si diventa.

venerdì 9 aprile 2010

Cosa ti porti dietro se sai di non tornare più?


Un attimo liberatorio. Quello cercato e inseguito da tutta la vita, la decisione che non si sperava di riuscire a prendere, la consapevolezza che matura poco alla volta. Andarsene e non tornare più indietro. La sola decisione fa sentire più leggeri, e allora deve esserlo anche il bagaglio, il retaggio mentale che ci segue. Ma di cosa davvero non si può fare a meno?  Anzi, passo indietro: per quale motivo si sceglie di ricominciare da capo, lontano da casa? Roberto Di Marco, psicologo e criminologo, in Cosa ti porti dietro se sai di non tornare più? (Fbe edizioni, 318 pagg., 13 euro) ha raccolto quindici testimonianze di persone normali che hanno fatto scelte coraggiose. C'è chi è fuggito, chi è andato alla ricerca di qualcosa che lo arricchisse, chi aveva bisogno di allontanarsi da una realtà in cui non si riconosceva più. Le mete sono davvero distanti, non solo misurate sui chilometri ma anche per cultura, per standard di vita, persino per l'alimentazione a cui si si deve abituare. Eppure queste quindici persone raccontano un'impresa riuscita. E anche il bagaglio dal quale non si sono riusciti a separare. Noi saremmo in grado? Un test alla fine del libro ci può dare una prima risposta.   

Qual è il denominatore comune di chi sceglie di tagliare i ponti con tutto e rifarsi una vita? 
Nelle storie del libro tutti i personaggi, di fronte a un cambiamento di vita totale, scoprono lati nuovi della propria personalità che loro stessi ignoravano o non avevano preso in considerazione. Ad esempio l'impiegato che diventa pilota di idrovolante. Nel proprio paese si vivono ruoli più o meno abitudinari e standardizzati sia in famiglia che nel lavoro. Cambiando radicalmente le situazioni di vita, emergono comportamenti diversi, aspetti latenti, a volte addirittura opposti e in contraddizione con il tipo di vita precedente, come, per esempio, nei racconti dell'Indonesia, del Giappone, delle Filippine, della Cambogia, dell'Etiopia, della Siberia, del Laos e dello Yemen. Esiste comunque in ognuno un grado diverso di disponibilità e adattamento. C'è anche chi, costretto a vivere all'estero, si ricostruisce la propria patria e frequenta tutti i giorni gli stessi luoghi dove incontra solo connazionali. Comunque il desiderio di uscire da una realtà ristretta, lo spirito di avventura, la capacità di affrontare condizioni di vita diverse, sono un comune denominatore di chi sceglie di tagliare i ponti con tutto.

Quando si affronta la lontananza, c’è un rischio che in genere non viene calcolato, e con il quale ci si trova a dover fare i conti?
C'è il rischio di voler fare il passo più lungo della gamba, esaltando solo ciò che è diverso, senza filtrarlo secondo le proprie capacità di adattamento. Il bagaglio culturale che ognuno si porta dietro rappresenta anche la propria individualità e identità.

Esiste un “bagaglio” al quale nessuno rinuncia?
Sicuramente i legami affettivi quando sono profondi restano. Sono quelli che a volte spingono a tornare o a non partire.

lunedì 5 aprile 2010

La signorina Else di Arthur Schnitzler illustrato da Manuele Fior

Laglio, Lago di Como

Vienna, 1924, borghesia mitteleuropea, monologo interiore, contaminazioni di psicoanalisi, Freud sullo sfondo. Così Arthur Schnitzler, con il romanzo breve La signorina Else lascia parlare la protagonista, ne evidenzia contraddizioni, dubbi, sfaccettature. Tutto questo è reso con enorme gradevolezza dalle tavole illustrate di Manuele Fior, che per le edizioni Coconino Press (pagg. 96, 17.50 euro) ha tradotto in racconto per immagini  l'opera dell'autore viennese. Uno stile che evoca il liberty, ma anche l'evanescenza dei pensieri interiori, l'oscurità incombente, i colori diluiti come le paure. Else ha diciannove anni, è cresciuta frequentando i salotti buoni, con l'educazione formale e oziosa, la frequentazione della musica quanto basta, e una cultura fatta di romanzi francesi, storia dell'arte e turismo, sufficiente a reggere le conversazioni e la forma. Il padre avvocato dilapida il patrimonio di famiglia al tavolo da gioco, e la madre, in una lunga lettera, le chiede aiuto: servono cinquantamila fiorini in poche ore, per non cadere nel baratro della reputazione distrutta, del lastrico, e forse di un gesto insano del padre. Un ricco amico di famiglia potrebbe andare loro incontro: ha sempre avuto un debole per Else, e potrebbe consegnare il denaro senza fatica, a patto che la ragazza gli si mostri completamente nuda. Inizia qui il suo calvario, il suo monologo interiore, il racconto delle paure, delle disillusioni, di tutto ciò che si agita nella mente di questa ragazzina.