domenica 8 novembre 2009

Michela Murgia, Accabadora

La lettura di Accabadora di Michela Murgia (Einaudi, 164 pagg. 18 euro) nasce da un consiglio, un ottimo consiglio che mi è arrivato da Andrea Vitali, Rosellina Salemi e Sandra Petrignani in questo post, dove chiedevo suggerimenti per buone letture italiane recenti. Nelle pagine di questo gradevole romanzo, che racconta una Sardegna ermetica e generosa, ho trovato uno stile ricercato e fluido, che fonde una coralità di voci fortemente legate al silenzio, all'introspezione e alla forza del non detto. Temi antitetici come il nascere e il morire, la colpa e il perdono, l'empatia e la distanza consumati in un mondo piccolo, che non ha mai il peso della claustrofobia. La dimensione della maternità, così sfaccettata e imprevedibile. Un mondo che ruota attorno a Bonaria Urrai, l'accabadora, la donna che porta la morte ai malati in agonia, quelli per cui solo la pietà ultima e coraggiosa può fare qualcosa.

Grande ricerca stilistica e un equilibro perfetto tra le storie e le parole scelte per raccontarle: quanto è stato spontaneo questo incontro?
Poco. Ci sono voluti tre anni di limature, alla ricerca dell'armonia tra una storia fortemente contestualizzata e un linguaggio che non si comportasse da arredo etnico. Ho lavorato molto di sottrazione, volevo affrontare le questioni del romanzo - morte e maternità - in maniera anche linguisticamente sobria. Però ho cercato anche di non tradire il sardo, perché le lingue sono importanti soprattutto per quello che ti impediscono di dire. Ho mantenuto dove era possibile le costruzioni sintattiche originarie dei dialoghi - che sono stati prima scritti in sardo e poi tradotti - e ho cercato di non imporre concetti astratti propri dell'italiano in una mentalità che non ha nemmeno parole per esprimerli. Il sardo non ha la parola "amore", e la parola "giustizia" non indica mai "la cosa giusta da fare". Ho consegnato il libro solo quando sono stata sicura di essermi avvicinata in maniera soddisfacente a questo risultato.

"Le colpe, come le persone, iniziano a esistere se qualcuno se ne accorge": questo romanzo si consuma nell'incontro tra colpa e perdono, che mai raggiunge la dimensione dello scontro, ma piuttosto del dolore. Questo corrisponde al tuo concetto di crescita e arricchimento interiore degli individui?
Al mio personale concetto di crescita la dialettica tra colpa e perdono appartiene solo in una certa misura, di sicuro per imprinting culturale e religioso, ma non in un'ottica determinista. Nel romanzo è invece molto rilevante perché si tratta di un concetto centrale nell'antropologia sarda, che tende(va) a leggere quasi tutti gli avvenimenti della vita come espressione di quel confronto. Nella storia l'agonia stessa è una questione di colpa, e viene definita non a caso "penitenza di morte", una locuzione direttamente tradotta da un lessico che sapeva raccontare le sofferenze solo come frutto di qualche violazione, nota o ignota.

La madre è una figura ricorrente e contrastante: Bonaria Urrai che porta nel sangue la maternità più profonda, Maria Listru sfuggente e quasi priva di spessore, Giannina Bastìu che smette di esistere per darsi completamente al figlio, Marta Gentili con l'educazione che sta solo nella forma. Da dove arrivano queste donne?
Da un mondo, quello a cavallo tra gli anni '50 e '70, che socialmente non concepiva le persone, ma solo le loro funzioni. Nel mondo rurale di partenza della storia, questa logica vale a maggior ragione, e riguarda tanto la donna che l'uomo. Giannina, la donna-funzione più accentuata, arriva al paradosso di sentirsi piena solo quando il figlio storpio torna ad avere bisogno di lei come un bambino. Il figlio Nicola è a sua volta vittima di un modello di virilità irreformabile, che rispetto a sé stesso ammette esclusivamente funzioni o disfunzioni, e lui sa cosa delle due non può riuscire ad essere. Alla fine le uniche due figure che riescono a piegare il modello di genere a sé stesse sono Bonaria e Andrìa, l'una sovvertendo il mandato collettivo che ha ricevuto, per rendere determinante la volontà di un singolo; l'altro costruendosi un'esistenza da "uomo di valore" meno rigida di quella ereditata, ed esercitandola sovversivamente nel mondo ancora rigidissimo in cui ha scelto di restare.


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