venerdì 16 aprile 2010

Ariel Magnus, Un cinese a Buenos Aires

Palazzo Terragni, progetto razionalista del 1932
 oggi sede del comando provinciale della
Guardia di Finanza di Como

Anche Buenos Aires ha la sua cinatown, le tv locali che cedono al sensazionalismo e gli incendiari che girando di notte con tutto il kit del dolo perfetto. Con questo mix di base, l'argentino Ariel Mangus, ha imbastito un thriller surreale, Un cinese a Buenos Aires (Gran Via, 264 pagg, 16.50 euro). I protagonisti sono un giovane argentino reduce dalla testimonianza a un processo e il suo sequestratore (nonché imputato), un cinese  accusato di essere l'autore di undici incendi dolosi nei negozi. Mangus parte da un fatto reale, cede alla deriva del thriller ed esplora una città nella città, racconta l'immigrazione dai retrobottega, disquisisce sui luoghi comuni più radicati. 

Qual è il fatto reale che ha suggerito l’idea di questo libro?
Nel 2006 in diversi luoghi di Buenos Aires c’è stata una serie di incendi, tutti in negozi di mobili, tutti nel cuor della notte, finché la polizia ha fermato un cinese in bicicletta (Un cinese in bicicletta è il titolo originale del romanzo, NdT) che aveva con sé bidoni di benzina, fiammiferi (da cui il soprannome Cerino) e pietre per rompere le vetrine. Si trattava di un sospetto così perfetto da destare dei sospetti. E di sicuro ha destato l’interesse di tutti, compresi vari scrittori che infatti l’hanno messo nei loro libri. Nel mio caso, sono arrivato a occuparmi di quella storia perché volevo scrivere un libro-reportage sugli immigrati cinesi in Argentina, un’idea che le case editrici rifiutarono con assoluto entusiasmo. È per questo che, a mò di vendetta, ho deciso di scrivere la storia di Cerino in forma di romanzo.

Quanto la televisione può essere determinante nella nostra vita, e quanto ne subiamo le conseguenze?
Non ho un televisore, tuttavia vengo a sapere più o meno tutto quello che accade in televisione, il che mostra fino a che punto influisce sulle nostre vite, persino su quelle di coloro che non la guardano. E il fatto di non essere al corrente di ciò che sta succedendo alla televisione può essere determinante, nel senso che ci fa sentire emarginati in molte situazioni sociali. Proprio come le catene via mail, la tv genera un’omogeneizzazione dell’esperienza che fa sì che tutti possiamo avere degli argomenti di discussione (perché abbiamo visto la stessa trasmissione), e al tempo stesso ci riduce a persone molto meno interessanti, cioè con meno cose da dire. Personalmente la cosa che mi fa più paura della tv è il rischio di rimanere intrappolato nel suo sistema di riferimenti, e che di fronte a certe situazioni mi venga in mente un jingle pubblicitario o qualcosa che ho sentito dire da qualche conduttore oligofrenico, cosa quasi inevitabile se uno passa parecchio tempo di fronte allo schermo. Però insomma, per molta gente è una grande compagnia, e personalmente senza le partite di calcio (che guardo, per internet o al bar o a casa di mio padre) sarei molto meno felice.

L’ironia è un’arma, si dice. Ma cosa combatte?
Credo che l’ironia sia in primo luogo un modo di esprimersi e di pensare, che più che combattere cerca di attrarre il prossimo verso le proprie posizioni, di farlo passare dalla propria parte strizzandogli l’occhio. Dicendo quello che penso attraverso il suo opposto, mettendolo per così dire tra parentesi e con un segno meno davanti, cerco di fare in modo che l’altro arrivi alla mia opinione come se stesse facendo tutto il percorso che lo conduce a quella conclusione. Credo che uno dei vantaggi dello humour sia precisamente quello di obbligare l’altro a fare la “fatica” di pensare, anche quando si tratta di un percorso di pensiero già prestabilito da chi sta utilizzando l’ironia. Se si usa l’ironia come un’arma, in ogni caso è per combattere la solennità, che a me fa sempre venir voglia di ribellarmi, persino se serve per esprimere opinioni con cui sono d’accordo.


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