domenica 29 novembre 2009

Scelte di lettura: chi e dove?


Li leggo quasi tutti, rubriche e inserti, concentrati soprattutto nel fine settimana: Tuttolibri La Stampa, La Repubblica Libri ora diventato R2 Cult, Corriere della Sera, Domenicale del Sole 24 Ore. Poi i periodici: D di Repubblica, Io Donna, Leggere:tutti, Bookshop (più settoriale e selettivo). Pagine o intere riviste dedicate alle recensioni o alle segnalazioni delle novità editoriali. Che stanno diventando sempre più noiose. Quello che mi tiene più legata al loro acquisto è il piacere di continuare a trovarmi tra le mani qualcosa di cartaceo, più che la ricchezza dei contenuti. Nulla o quasi le differenzia dal tavolo delle novità di qualsiasi libreria: stessi titoli, stesse considerazioni. Mi piace PulpLibri, bimestrale con qualche lunga intervista e molte recensioni, pochi titoli da primi posti delle classifiche e parecchi piccoli editori. Tra gli altri invece è piattume. Chi aspira ad andare controcorrente, cercando di criticare gli autori o i titoli che imperano nelle vendite, lo fa quasi sempre con spirito polemico e non costruttivo, se non addirittura con inutile maleducazione.
Quindi, dove e come curiosare per un consiglio? A parte mettere il naso tra gli scaffali delle librerie e ascoltare i consigli degli amici, a parte cose come questa o questa, devo dire che la rete sta diventando sempre più stimolante. Non mi riferisco tanto ai blog o siti più noti, che spesso si prestano a insopportabili e logorroiche polemiche. Sto diventando sempre più insofferente nei confronti dell’inutilità e del superfluo, e quindi non fanno per me. Ci sono invece indirizzi meno noti, ma molto più indipendenti, che tengo d’occhio con piacere. Per esempio Noi del ghetto dei lettori con il suo grande seguito, Angolo Nero o Thriller Café per la narrativa di genere, Erotismo in lettere quando parla di libri, Letteratitudine con i dibattiti Gruppodilettura, 52 libri più virato sui classici. Ogni tanto do un’occhiata a Italica e Rai Libro. Altri ancora, dai quali mi è capitato di passare, non riesco a leggerli perché sono disordinati o scialbi. Però gironzolo e guardo di cosa parlano.
Poi c’è la grande risorsa aNobii, fatta dai lettori con giudizi, commenti suggerimenti. Anobium punctatum è il tarlo della carta, che divora i libri e se ne nutre. Questo mi diverte molto: una volta vinta la remora di entrare nelle librerie a caso, che un po’ lascia il senso di andare a curiosare in casa d’altri, diventa un vero piacere. Su questi scaffali virtuali si trovano titoli mai sentiti, le affinità e diversità portano da una libreria all’altra permettendo di esplorare il proprio interesse del momento, o di sentire il polso di qualcosa che ci attira. Di capire se chi ha trovato un libro bello ha gusti simili ai nostri, e quindi condivisibili. Oppure fare domande a lettori che sono quasi sempre sconosciuti, nascosti dietro un nick che gli permette di esprimere anche tutta la disapprovazione o ribellione verso un autore, un romanzo, un saggio. Perché qui, salvo poche e trascurabili eccezioni, ci sono giudizi privi di secondi fini. Ci sono le scoperte e i titoli trascurati dalla cultura commercializzata, dagli accordi tra uffici stampa e redazioni dei giornali, dalle strumentalizzazioni dei primi letterari.
Da pochi giorni è uscito il libro di aNobii: Il tarlo della lettura (Rizzoli, 493 pagg., 18 euro): 100 libri (anzi, 200 con i “bonus track”, ulteriori scelte nelle librerie degli aNobiani) nelle recensioni dei lettori in quattro anni di vita del social network, che oggi conta oltre quattordici milioni di libri schedati, letti, recensiti, criticati ed esaltati. Alcune sono spassosissime e fulminanti, le mie preferite. Da tenere, consultare, leggiucchiare. E da mettere sulla libreria di aNobii.

sabato 28 novembre 2009

Lucia Pescador, Ambulanti e pellegrini




Lucia Pescador, Ambulanti e pellegrini
via per Alzate 9, Cantù dal 14 novembre 2009 al 30 gennaio 2010

venerdì 27 novembre 2009

Christian Lehmann, Il seme della colpa

Succede tutto in quattro giorni. Il tempo di un'autopsia, di un esame tossicologico. Un tempo sufficiente a segnare un'esistenza, a consumare un tradimento. A rendersi conto di essere arrivati al capolinea. Christian Lehmann, medico francese che si divide con la scrittura, in Il seme della colpa (Meridiano Zero, 158 pagg., 13.50 euro) parte da un'accusa di eutanasia che porta in carcere Thierry Salvaing, medico condotto dalla professione onesta. Il grande tema rimane presto sullo sfondo, perché questo scorrevole romanzo racconta altro. Tratteggia lo scontro all'interno della casta dei medici, tema trasversale e mai abbastanza indagato, così come la mercificazione della professione sanitaria. Mostra l'amarezza di un uomo di successo nel dover prendere atto di essere arrivati alla fine di una parentesi. Il tentativo, forse inconsapevole, di cavalcare una buona causa per rilanciare se stessi. La pietà e i suoi limiti. L'ottima traduzione di Giovanni Zucca rispetta l'equilibrio della scrittura, e dei suoi tempi. Le pagine scorrono non tanto alla ricerca di un finale, ma della soluzione dei conflitti dei protagonisti. Il passo dei francesi nel noir si distingue, si alimenta di atmosfere che scivolano sotto la pelle, che non hanno bisogno di essere descritte, ma che sono lì, a disegnare lo sfondo.
Un buon libro, tempo ben speso.

mercoledì 25 novembre 2009

Luca Ciarabelli, Il paese dei Pescidoro

I libri di Luca Ciarabelli sono sulla panchina triangolare di Corrado Levi

Dopo poche pagine ti ha già colpito la scrittura. Un racconto fluido in cui i dialoghi sono colti prima di diventare parola, quando ancora sono pensieri nella mente dei protagonisti. Uno stile che ti trascina dentro la storia, che ti avvicina ai personaggi e ti obbliga a prendere il loro ritmo, prima di iniziare ad ascoltare cosa vogliono raccontarti. Luca Ciarabelli ha esordito lo scorso anno con Il bambino che fumava le prugne (Il Maestrale, 230 pagg., 15 euro), con un protagonista, il tenente Bonarroti, nel quale si trova molta parte dei percorsi di vita dello stesso Ciarabelli, umbro di origine trapiantato nel Ravennate. L'omicidio di Asmodeo Baldini, archeologo dilettante trovato ai piedi di una impalcatura nella chiesa di Sant'Apollinare in Classe, obbliga Bonarroti a uscire bruscamente dal suo torpore. Perché Baldini, prima di essere ucciso, stava distruggendo a martellate il mosaico di Teodorico, ma anche perché ad avvelenarlo è stato uno strano miscuglio tossico estratto dalle prugne. Pochi giorni fa è uscito il secondo romanzo di Ciarabelli, Il paese dei Pescidoro (Il Maestrale, 190 pagg., 16 euro): lo stile si ripropone, ma il contesto cambia radicalmente, così come il genere. Villatiferno, paese immaginario del Centro Italia, è chiuso nella ripetitività delle sue origini e tradizioni: solo Cornelio Persico, tornato dal Sudamerica con un figlio a carico, saprà portare momenti di assurdità e stravaganza, con il suo desiderio di realizzare la trasposizione drammatica di Via col vento. Basta questo per renderlo un soggetto da temere, un potenziale destabilizzatore silenzioso, da internare in un "albergo" che di fatto è un manicomio. Con questi toni da avventura, Ciarabelli racconta una storia di libertà e autodeterminazione.

Sei partito con un romanzo che poteva quasi definirsi un giallo, ma ora hai cambiato scenario. Il genere quindi per te non è una scelta, ma una conseguenza?
Assolutamente sì: ho sempre creduto che uno scrittore possa scrivere di tutto purchè ne scriva bene.

La tua scrittura è molto particolare, con una ricercatezza di suoni e uno stile per il quale non saprei trovare paragoni. Tu saresti in grado di citarmi qualche tuo punto di riferimento? E da quale commistione nasce questo ritmo?
Il primo su tutti è Gabriel Garcia Marquez, inarrivabile. Poi potrei citarti Paul Auster. Ecco, ciò che cerco di fare è coniugare il mio amore per l'aggettivazione, che mi viene da Marquez, con la scorrevolezza di un elegante e poetico cantastorie come Auster. Il risultato è che mi allontano da entrambi, e va bene, poichè spero possa restare soltanto Ciarabelli.

Da dove arriva l’idea di Villatiferno?
E' la trasposizione immaginaria del paesino dove son nato, Città di Castello, in provincia di Perugia, luogo natio di Monica Bellucci e del grande artista concettuale Burri. A parte ciò, un luogo delizioso da vedere e terribile da vivere. Palcoscenico ideale per la mia storia.

domenica 22 novembre 2009

Alessandro Baricco, Emmaus

Un momento di formazione, l'attimo della vita in cui si sceglie che strada prendere, cosa essere e quali modelli seguire. Quattro adolescenti. I desideri che si fanno avanti, le famiglie, le paure, il sesso, la religione e l'espiazione, la voglia di capire. L'incapacità di salvarsi. Il voler guardar solo avanti, senza sapere cosa ci trasciniamo dal passato: quali condizionamenti, limiti, timori. In Emmaus (Feltrinelli, 139 pagg., 13 euro), Alessandro Baricco parla di questo, e di molto altro. Quello che non c'è in queste pagine, arriva attraverso le suggestioni, gli spunti su cui riflettere, confrontarsi, immaginare.
"Ci disarma, infatti, l'inclinazione a pensare che la nostra vita sia, innanzitutto, un frammento conclusivo della vita dei nostri genitori, solo affidato alla nostra cura. Come se ci avessero incaricato, in un momento di stanchezza, di tenere un attimo quell'epilogo per loro prezioso".
L'eredità di ciò che ci rimane inevitabilmente attaccato dentro le mura di casa, senza scegliere e senza pensare. Senza ragionare sulle sue trasformazioni.
"Così, senza saperlo, ereditiamo l'incapacità verso la tragedia, e la predestinazione verso la forma minore del dramma: perché nelle nostre case non si accetta la realtà del male, e questo rinvia all'infinito qualsiasi sviluppo tragico innescando l'onda lunga di un dramma misurato e permanente - la palude in cui siamo cresciuti. E' un habitat assurdo, fatto di dolore represso e quotidiane censure".
E infine il male dispensato come deterrente, il suo esistere sparpagliato forzatamente per poterlo evocare all'occorrenza. Una prassi educativa, una calamita innescata nel momento di maggiore fragilità esistenziale. Ingrediente acquisito e troppo sottovalutato di esistenze che stanno prendendo le misure con la vita che le aspetta.
"Nessuno di noi ha quella sensibilità per il male - una specie di morbosa attrazione, atterrita - ma in quanto atterrita sempre più morbosa, inevitabile - come nessuno di noi ha la stessa vocazione del Santo per la bontà, il sacrificio, la mitezza - che di quel terrore sono la conseguenza. Forse non ci sarebbe bisogno di scomodare il demonio, ma nel nostro mondo ogni santità è strettamente intrecciata a un'indicibile consuetudine col maligno... Così si parla di demoni, senza la prudenza che invece si dovrebbe avere, nel parlare di demoni. E al cospetto di anime chiare come le nostre - di ragazzi. Non hanno pietà alcuna, in questo, i preti".
E' da cercare in spunti come questi, a mio parere, lo spessore di questo romanzo concentrato in poche pagine. E in una scrittura alta, assolutamente alta, che segna la distanza incolmabile con la maggior parte delle pagine racchiuse dalle decine di copertine che mi circondano.

mercoledì 18 novembre 2009

Corpi, donne, nuove percezioni. A chi stiamo parlando?


L’attenzione attorno al tema del corpo, il corpo delle donne, è crescente. Dibattiti, convegni, libri, inchieste. Come se fosse la grande emergenza di questo momento: scoprire e imporne il rispetto, la riappropriazione, la dignità. Riportare a galla tematiche a cui si è dato fondo in un momento storico di vera scoperta e analisi, durante il quale, pur con gli errori di prospettiva e gli eccessi, sono stati posti alcuni punti di partenza ancora oggi incrollabili. Tutto questo potrebbe essere un tema importante, se non ci fosse quel retrogusto da pubblicità progresso che si esaurisce nella sintesi di uno spot pubblicitario. A fronte di una cultura generale sempre più misogina e quindi impoverita di quello che è l’elemento fondamentale del pluralismo e del gioco degli opposti, del confronto mentale e intellettuale privo di pregiudizi, mi chiedo a cosa serva fare campagne tutte giocate su messaggi e iniziative che non lasceranno nulla a chi non ha gli strumenti mentali e l’educazione per comprenderne il significato vero e profondo. A chi non è mai stato insegnato il rispetto per l’individuo, prima ancora che per la donna, in un Paese dove ogni giorno i soggetti che rivestono ruoli che dovrebbero essere di esempio morale non fanno altro che mostrare con orgoglio le regole della sopraffazione, dello svilimento, del più forte.
Chi ha bisogno di crescere, di imparare e di capire, non è in platea ad ascoltare. Non lo è mai. Allora, io mi chiedo a chi stiamo parlando. A chi queste cose le sa già? E per quale motivo? Per il gusto dell’esercizio di stile? L’inutilità di questioni poste male ed esaurite peggio, lascia solo una grande stanchezza mentale, e rischia di sfociare in una sorta di insofferenza per il metodo. Uguale, ripetitivo, inutile quando non addirittura dannoso. Sono convinta, ormai da tempo, che parlare di certi problemi – o presunti tali – serva solo a crearli. A generare le differenze, le polemiche, i rallentamenti. A spostare l’attenzione sul contorno mentre la sostanza si impoverisce fino a scomparire. Considerarsi parte di una “specie protetta” è il primo passo che si può compiere consapevolmente verso l’autoemarginazione, ponendo le basi di una insicurezza che sarà subito cavalcata e strumentalizzata.
“Creare una cultura positiva del corpo”: mi ronza nelle orecchie questa frase che ora viene troppo usata. Ma cosa significa? Si può fare lo sforzo di tradurre questo concetto sterile in atti concreti? Minimi, ma concreti. E allora da dove si inizia? Innanzi tutto smettendo di mortificarlo, questo corpo. Iniziando a considerare la valorizzazione dell’estetica come qualcosa di costruttivo e non demoniaco. Separandolo, una volta per tutte, dall’idea di peccato. Occorre iniziare a parlare in modo diretto, rivolgersi agli interlocutori che hanno bisogno di formarsi un’opinione, non a chi ce l’ha già e la coltiva: entrare nelle scuole, guardare in faccia gli adolescenti, creare spazi nelle carceri. E’ qui che si crea la distorsione, è a loro che occorre rivolgersi, prima di tutto, in un clima disteso e costruttivo. Assieme all’educazione civica dalle scuole è stato tolto anche l’insegnamento della civiltà, uno spazio che oggi potrebbe essere utilizzato per tamponare l’emergenza dell’ignoranza sessuale, relazionale e morale. Smettendola di far finta che la famiglia e la società abbiano il diritto di impartire per primi un’educazione che nemmeno loro stessi hanno ricevuto, condizionati da lacune che non sanno di avere.

Cosa leggere:
Corpi. Ventuno racconti e una ballata tra terra e cielo (Mondadori, 280 pagg. 9.50 euro). Il libro nella foto di apertura è un'antologia di racconti sul tema del corpo che raccoglie contributi di autrici italiane come Alessandra Appiano, Geppi Cucciari, Tiziana Ferrario, Chiara Gamberale, Maria Rita Parsi Nicoletta Sipos, Rosa Teruzzi, I proventi della vendita del libro saranno devoluti alla Fondazione Francesco Rava per la tutela dell'infanzia abbandonata.
Valentina Crepax, Gli uomini: istruzioni per l'uso (Calypso, 157 pagg., 16 euro). Gli uomini non sono tutti uguali, quindi ecco una ricca classificazione per categorie con tutti i tipi da scegliere per ogni occasione. Le illustrazioni sono di Guido Crepax.
Marina Valcarenghi, L'aggressività femminile (Bruno Mondadori, 174 pagg., 16 euro). Un testo irrinunciabile, che analizza la compressione dell'aggressività nella donna già da tempi lontanissimi, e ne ricostruisce le conseguenze sul piano comportamentale ed emotivo: autolesionismo, senso di colpa, abitudine al lamento, insicurezza, ansia e insofferenza.
Paolo Sorcinelli, Avventure del corpo (Bruno Mondadori, 198 pagg., 15 euro). Il corpo nelle culture e nelle pratiche dell'intimità quotidiana, fonte di piacere e oggetto di desiderio, entità materiale e organica tra letteratura libertina e precetto religioso. Una storia sotterranea che passa attraverso i gesti minimi.
Paola Borgna, Sociologia del corpo (Laterza,158 pagg., 10 euro) . I nuovi confini del corpo umano attraverso le realtà prodotte socialmente: tecnologie biomediche comunicazione mediatica, body building e anoressia. I corpi del femminismo, della medicina, del diritto, dell'etica e dell'arte.
Iaia Caputo, Le donne non invecchiano mai (Feltrinelli, 158 pagg., 14 euro). Fare i conti con il mito dell'eterna giovinezza, trasformato in esigenza da rincorrere e da replicare. Come invecchiano le donne nell'epoca della chirurgia estetica e delle creme miracolose. E soprattutto, esiste ancora il diritto di invecchiare?
Eve Ensler, I monologhi della vagina (Il Saggiatore, 218 pagg., 7.50 euro). Uno spettacolo teatrale del '98 diventato un classico, carrellata di interviste a donne di ogni età, estrazione sociale, razze e religione. Con il giusto humor.
Zaira Cattaneo e Tommaso Vecchi, Psicologia delle differenze sessuali (Carocci, 110 pagg, 10 euro). Esistono differenze tra gli individui legate al sesso? Un dibattito sulle diversità determinate dall'appartenenza sessuale, soprattutto dal punto di vista cognitivo ed emotivo.
Alain Touraine, Il mondo è delle donne (Il Saggiatore, 242 pagg., 20 euro). L'eredità del femminismo, il punto di vista su se stesse, le gabbie della globalizzazione culturale: lo studio sociologico di un gruppo di ricercatori francesi, su un campione estremamente vario, che arriva a individuare nelle donne il punto di partenza della rivoluzione culturale dominata dal "soggetto".

martedì 17 novembre 2009

Elias Mandreu, Nero riflesso


Un magistrato, un ingegnere meccanico e un dirigente pubblico per un esperimento di scrittura a sei mani, al suo debutto con una storia che inizia con un ritorno: quello del commissario Nero Di Giovanni sulla sua isola, la Sardegna. Piani incrociati, coralità di voci e di stili, una trama poliziesca per raccontare e affrontare temi irrisolvibili come l'immigrazione clandestina, la corruzione negli appalti, le infiltrazioni nel mondo telematico, l'avanzare delle multinazionali. Un collettivo che con lo pseudonimo di Elias Mandreu, firma il suo romanzo d'esordio, Nero riflesso (Il Maestrale, 560 pagg., 19 euro). In questo ritorno non voluto nella sua terra d'origine, il commissario Nero diventa il filtro di voci che credeva ormai lontane, ma che stanno scrivendo i destini di tutto ciò che lo circonda.


Perché un collettivo di scrittura, e quante competenze personali avete miscelato in questa identità?
(Mauro) Credo che più che una miscela di competenze professionali nel nostro lavoro prevalga la miscela di personalità con un minimo comune denominatore: dietro la varietà di personaggi, di stili e scelte narrative ci sono le nostre individualità, le nostre voci, che ci piace camuffare e riconoscere via via nel procedere della storia. Questa è la risposta anche alla domanda che precede sul perché un collettivo di scrittura: non siamo tre scrittori che hanno deciso di fondare una società per azioni. Al contrario l'idea di poter essere degli scrittori è nata in noi mano a mano alla conduzione di un progetto comune, che potrei definire come un gioco che ci ha seriamente appassionato e che siamo riusciti a portare alla fine. Ovviamente in questo nostro "rifletterci" in Nero ci sono le nostre vite, le nostre esperienze e quindi anche le nostre professioni, quella di un magistrato, di un dirigente amministrativo e di un ingegnere, e le nostre rispettive passioni e ossessioni.


La storia come è nata? Da dove arriva Nero Di Giovanni?
(Eugenio) L'idea del romanzo - non solo l'idea narrativa sulla base della quale è stata poi costruita l'intera vicenda, ma l'idea stessa di scrivere il romanzo in tre - è nata per gioco e per scommessa, durante una cena tra amici in cui si parlava di libri letti, di film visti, di lavoro, di politica e altro, ma anche delle nostre vicende personali, come spesso accade in una cena tra amici. A un certo punto il discorso si è spostato sul libro che ci sarebbe piaciuto leggere, sui temi, lo stile, la storia e i personaggi che ci sarebbe piaciuto trovare dentro un nuovo romanzo, e allora ci è venuto in mente di provare a scriverlo noi, un libro del genere. Ora non sappiamo dire se ci siamo veramente riusciti, ma le premesse erano queste: quelle di scrivere un romanzo che mischiasse i generi, gli stili, i temi da noi preferiti. Ma soprattutto un romanzo in cui i protagonisti fossero persone vere, non necessariamente noi o le persone che conosciamo e frequentiamo (anche se alcuni personaggi del libro hanno in effetti i nomi veri di alcuni nostri cari amici), ma certamente personaggi che assomigliassero a noi e alla nostra generazione, quella che sta a cavallo tra i trenta e i quaranta. In un certo senso in questo romanzo è soltanto la storia raccontata ad essere connotata di eccezionalità e di forte drammaticità, ma le persone che la vivono sono assolutamente normali, e in quanto tali in esse ci si può riconoscere facilmente. Nero, in particolare, non ha davvero niente dell'eroe. Riveste un ruolo che gli è stato imposto dagli eventi, ma lo fa con riluttanza e scarsa convinzione, sperando di riuscire ad andarsene il prima possibile dalla città nella quale è stato costretto a tornare. Lui era un funzionario del Ministero dell'Interno e non è mai stato un vero poliziotto prima delle vicende raccontate nel romanzo. Si sente impreparato e inadeguato al ruolo, e ha anche paura che la cosa finisca per risultare evidente agli altri. E infatti nel corso della vicenda la sua insicurezza lo porta a commettere errori di valutazione gravissimi e a lasciare che le sue vicende personali si mischino al lavoro, finendo per mettere in pericolo la vita delle persone che gli stanno vicino. Nero impara a rivestire il ruolo di commissario di polizia durante lo svolgersi della vicenda, e in un certo senso si può dire che via via diventa più forte delle sue debolezze. Difficile dire poi se assomiglia ad altri suoi colleghi letterari o cinematografici. In fondo anche noi dobbiamo ancora imparare a conoscerlo bene. Però ci piacerebbe continuare a frequentarlo, ecco. È un tipo dal carattere difficile, ma potrebbe valerne la pena.


Uno scenario criminale complesso, piani narrativi e di indagine che si sovrappongono, un’impostazione movimentata che è espressione della coralità da cui si è generata. In tutto questo, è venuta prima la storia o la ricerca di uno stile?
(Andrea) Decisamente è venuta prima la storia. O, per dirla tutta, "le storie". Quando abbiamo iniziato a lavorare su Nero riflesso, avevamo giusto qualche idea di base sull'intreccio. C'era Nero che tornava in città, c'era una serie di omicidi, un passato da chiarire e poco altro. Tutto il resto è nato per strada, e sulle prime ognuno di noi ha scritto per un pubblico costituito dagli altri due. Ci siamo divertiti (tantissimo!) a stupirci a vicenda, ad introdurre nuovi incroci e nuovi personaggi. Questo credo contribuisca a dare una sensazione di coralità al romanzo, che diventa una sommatoria di tante piccole storie personali. Abbiamo voluto raccontare una collettività, una città, ispirandoci con molta libertà alla realtà provinciale da cui veniamo, ma senza caratterizzarla troppo, perché la città di Nero diventasse la città di tutti i lettori, e non il nostro personale luogo delle memorie. Naturalmente questa prima fase di jam-session, di improvvisazione, ha dovuto cedere il passo ad una pianificazione più di dettaglio, diversamente sarebbe stato impossibile arrivare ad un finale sensato in cui tutte le sottotrame si chiudono e le incognite si sciolgono. Per fare questo siamo passati dal modello del Bazar a quello della Cattedrale: abbiamo scritto una lunga sceneggiatura in cui tutti gli eventi venivano raccontati in dettaglio, cercando quanto possibile di incastonare i pezzi già scritti. Ci siamo suddivisi le parti mancanti, arrivando così a concludere la prima stesura di Nero riflesso. È chiaro che alla fine lo stile è venuto come conseguenza di questa stratificazione di scrittura, anche se le nostre comuni letture hanno sicuramente avuto il loro peso. Siamo tutti e tre lettori voraci ed onnivori, abbiamo letto ed amato tutti i capisaldi del noir, da Scerbanenco a Ellroy, da Fruttero & Lucentini sino a Chandler ed Hammet e sicuramente ne sto dimenticando qualcuno. Ciononostante non siamo lettori monotematici, di genere, né aspiriamo a diventare scrittori di settore. Per questo direi che abbiamo usato consapevolmente il noir (e volendo anche i suoi cliché e convenzioni) come uno strumento, come mezzo per raccontare una storia, e non come fine ultimo della narrazione, ma allo stesso modo ci abbiamo infilato dentro molti altri registri.

(Le foto sono di Simona Soro, tratte dall'album I luoghi di Nero riflesso)

domenica 15 novembre 2009

Rassegna della Microeditoria



Domenica mattina, tempo brutto e foschia. Freddino. Un paio d'ore passate a Villa Mazzotti a Chiari, alla Rassegna della Microeditoria, e curiosare tra le novità. Un sacco di carta sprecata, alberi abbattuti senza un buon fine, ma anche qualcosa di curioso. O di curiosabile. Meridiano Zero tra le novità propone la riedizione di La ballata di Jolie Blon di James Lee Burke, e il nuovo romanzo dell'italiano Enrico Unterholzner, Lo stagno delle gambusie. Per Todaro editore, casa editrice di Lugano che pubblica quasi esclusivamente gialli, sono in arrivo La vendetta di Santa Costanza della coppia Riccardo Parigi e Massimo Sozzi, e Nella città di cemento di Roberto Valentini. Leggere è un gusto è la bella collana di ricette tratte da spunti di narrativa, cinema e arte di Il Leone Verde: è appena uscito L'amore, la morte e il basilico. La cucina marsigliese di Jean Claude Izzo, di Pierpaolo Pracca. Un cinese a Buones Aires di Ariel Magnus è l'ultima proposta della milanese Gran Via, solo firme catalane scelte da Fabio Cremonesi. Per Eumeswil due segnalazioni: l'insolita proposta di Catalin Florin Maggi, rumeno d'origine e romagnolo d'adozione, che in Alla frutta si avventura nel thriller con un serial killer "ammazzascrittori", e il nuovo giallo di Gordiano Lupi in arrivo a inizio dicembre, Sangue habanero. Keller editore di Trento, oltre a Il paese delle prugne verdi di Herta Muller, Premio Nobel per la Letteratura 2009, propone Crescere è un mestiere triste di Santiago Roncagliolo, autore de I delitti della settimana santa uscito per Garzanti. Caribou editore di Verbania è una piccola e indipendente casa editrice nata da poche settimane, in fiera con i suoi due primi titoli, classicissimi: Interdizioni israelitiche di Carlo Cattaneo e Pensieri e scritti letterari di Leonardo Da Vinci.
L'editoria per bambini è sempre un settore vivace, dove l'estetica dei libri vale quanto il contenuto: tra le "Piccole pesti" di Lavieri mi è piaciuto La giornata della bambina inconcludente in cinque filastrocche di Simona Ciraolo, Il mondo di Bilù di Kaba edizioni, e il bel catalogo delle Edizioni Artebambini, che pubblica anche RivistaDada, periodico di arte per bambini.
Infine una novità tra i free press: NoTag è la nuova pubblicazione trimestrale di Eumeswil, che nel primo numero ospita interventi di Andrea Bajani, Giulio Mozzi, Elena Varvello e una decina di altri autori.

venerdì 13 novembre 2009

Sigrid Verbert, Il libro del cavolo


Non è un saggio monografico su un ortaggio, e nemmeno un'opera di poco conto. E' un libro di cucina, di fotografia, di cultura alimentare e di fantasia. L'autrice si chiama Sigrid Verbert, belga trapiantata in Italia assieme a tutte le sue passioni, ma la rete la conosce come Il cavoletto di Bruxelles, uno dei blog gastronomici in assoluto più raffinati, sintesi del connubio tra cibo, estetica e cultura. Lo seguo da anni, perché è svincolato da ogni filo conduttore che non sia la bellezza e la bontà di una preparazione. Ora ha realizzato un libro di cucina, che nasce dal lavoro fatto in questi anni: non è il suo primo titolo, ma certamente il più bello: Il libro del cavolo (Cibele editore, 256 pagg., 28 euro), non si trova facilmente in libreria, ma si può ordinare attraverso il sito di Sigrid. In dieci capitoli fa il giro del mondo, passa tra i panini e l'ora del tè, racconta le suggestioni e le preparazioni. Le sue ricette ti viene voglia di mangiarle proprio così, negli stessi piatti in cui li fotografa lei, come se spostarle da un'altra parte significasse fargli perdere un pezzetto di anima.

E’ nata prima la passione per la fotografia, per il cibo o per internet?
Probabilmente quella per il cibo. Il rapporto con la fotografia è più lungo e complesso - mio padre era fotografo, ha cambiato mestiere quando sono nata e mi ha sempre molto incitato a non fotografare, ma nel contempo vivevo in mezzo alle sue foto, raccoglievo le sue dritte... -, mentre da quando ho iniziato a interessarmi di cucina, dieci anni fa, poco dopo aver incontrato l'allora fidanzato ora diventato mio marito, non ho veramente mai smesso di cucinare, sperimentare, imparare. Poi, con il blog, anche la fotografia si è inserita nell'interesse per la cucina, anche se dopo l'ha superato... Una vera e propria passione per internet invece, credo che non ci sia mai stata... Mi ha incuriosito il media blog e ho iniziato a usarlo, e trovo stimolantissimo, tutt'ora, anzi sempre di più, le possibilità e le forze del mondo internettiano. Detto questo però, sono profondamente affezionata e alla ricerca del lato umano delle cose, gli sguardi, i gesti, le parole, per cui non potrei vivere solo in rete, e non sono una geek!

Quali sono le ricette più fotogeniche?
Hmm... beh i dolci in generale tendono a essere molto sexy, sono golosi, voluttuosi, parlano di tabu, seducono, quindi si, decisamente i dolci e in particolare i dolci che prevedono salsine di cioccolato o caramello... okay okay, la smetto, sto scivolando nel foodporn... A me piace moltissimo fotografare anche la pasta, specialmente la pasta lunga. Assolutamente non fotogenici invece sono, spesso, le insalate: presentarle bene richiede un sacco di lavoro preparatorio. Poi le carni, ma forse è semplicemente perché non mi fanno impazzire come cibo quando mi calo nel ruolo di mangiatrice, quindi faccio anche fatica a renderne il fascino che non percepisco.

Con “Il cavoletto di Bruxelles” e con i libri che hai pubblicato in questi anni, hai contribuito ad alzare il livello del legame tra cibo, estetica e professionalità, anche dal punto di vista mediatico. Quali esempi hai seguito, e in cosa ti senti di aver fatto scuola?
Sinceramente non saprei se ho contribuito ad alcunché, davvero. Però posso dirti chi sono stati i miei guru... Anzi, vorrei anche premettere una cosina, perché ogni tanto sento, oppure ho sentito, cose del tipo "Ah sì, ma questo o quella non fa che imitare tizio o caio ecc...". Ecco, io non penso affatto che si possa imitare chicchessia: la foto, come qualsiasi altro impegno artistico, è questione di sensibilità propria, di attrazione fisica personale. Quindi penso che si possa imitare, ma sono degli esercizi di stile, a volte anche salutari, e non delle ricette di vita. Per quanto mi riguarda, sono cresciuta con i libri di Donna Hay, e per me rimangono ancora oggi degli esempi di foodstyling praticamente insuperabili. Ma poi a tutti gli effetti io non sono Donna Hay e quindi non è quello, esattamente, che vorrei fare... a parte chiaramente che ne sarei incapace... Mi sono nutrita moltissimo anche della scuola Gourmet, e del lavoro di fotografi come Roland Bello, Romulo Yanes, Con Poulos e David Loftus, che hanno tutti in comune una forte attrazione per il realismo nella fotografia di cibo. Un realismo sdoppiato di un accurato e millimetrico foodstyling, nel senso che tutto ciò che sembra spontaneo in generale non lo è. E poi strada facendo ai fotografi non food planetariamente conosciuti. Insomma direi che la foto e la cucina hanno questo in comune: non si inventa mai niente, si digeriscono e si assimilano e si ripropongono i lavori degli altri, ma per fare questo ci vuole, comunque, una formazione solida di base e una propria personalità artistica. Quindi io continuo a guardarmi in giro, a cercare ciò che mi piace o meno, e se stimolo altri a fare lo stesso, mi sento ripagata e felice.

giovedì 12 novembre 2009

FOBIEril - soluzione MANIAzina


Venti racconti "per una corretta igiene mentale" rilegati da una fascetta che ne consiglia l'uso in ordine alfabetico, per contrastare la noia, curare il tempo libero e per ogni volta che si senta il bisogno di leggere. Elisa Genghini e Eliselle hanno curato i contenuti di FOBIEril- SoluzioneMANIA (Jar edizioni, 12 euro), antologia dalla veste editoriale nuova e divertente, che raccoglie storie di autori come Gianluca Morozzi, Gianluca Mercadante o le stesse curatrici. Alle tre domande risponde Eliselle.

Un titolo un po’ complicato per questi venti racconti confezionati singolarmente. Ce lo vuoi spiegare?
Il titolo di un'antologia dedicata alle fobie e alle manie dell'uomo contemporaneo doveva dare l'idea di un farmaco, un prontuario per risolvere qualsiasi tipo di problema nel minor tempo possibile e nell'arco di... un racconto. Fascicoletti contenenti la posologia e la soluzione giusta in pochi minuti di lettura: in effetti, ce n'è per tutti i gusti. E per tutte le paranoie.

Chi sono questi autori e come li avete selezionati?
Sono autori emergenti o già noti del panorama editoriale attuale, e sono stati scelti in base all'originalità dello stile e dei temi trattati: Elisa Genghini e io abbiamo proposto l'idea e sono arrivati tantissimi racconti, ognuno con una propria "personalità". Il risultato globale ci è piaciuto parecchio.

Quali sono le fobie e manie su cui si sono maggiormente catalizzate le attenzioni?
Ci sono fobie e manie strane, da quella per facebook e le relazioni che nascono in rete a quelle malate, ossessive e morbose, per gli uomini sbagliati che oltre ad essere dei "vampiri" egoisti sono pure ipocondriaci e fanno impazzire le fidanzate. Ci sono dalle paranoie per l'alito a quelle per la perfezione dell'immagine, e così via. Diciamo che ne è uscito un "ottimo" quadro dell'uomo moderno.

mercoledì 11 novembre 2009

Paul H.D. d'Holbach, Saggio sull'arte di strisciare


Partiamo dal sostantivo e dal suo significato: "Cortigianeria, l'essere cortigiano". Poi i sinonimi: ossequiosità, servilismo, adulazione, blandizia, lusinga, piaggeria, ruffianeria, sviolinata. E quindi, chi mette in atto uno o più di questi atteggiamenti, è adulatore, incensatore, intrigante, piaggiatore, ruffiano. Ora che abbiamo chiaro di cosa stiamo parlando, possiamo anche renderci conto di quante volte ci imbattiamo in questa - come definirla? - situazione, atteggiamento, condizione. Scelta. I termini per definirla sono cambiati nei secoli, seguendo più o meno le mode del lessico, ma la sostanza non cambia, ed è quella che rende più che mai attuale il piccolo saggio di Paul H.D d'Holbach, Saggio sull'arte di strisciare ad uso dei Cortigiani (Il Melangolo, 26 pagg., 4 euro). Scritto nel 1813 dal barone illuminista amico di Grimm e Diderot, divagazione di costume all'interno delle sue "facezie filosofiche", è un breviario di verità. "Un buon cortigiano - illustra d'Holbach - non deve mai aver un'opinione personale, ma solo quella del padrone o del ministro... non deve mai avere ragione e non è in nessun caso autorizzato ad essere più brillante del suo padrone...". Mestiere difficile, allora come oggi, perché "I filosofi, che spesso sono di cattivo umore, considerano il mestiere del cortigiano come vile, infame, pari a quello di un avvelenatore... Ma come fanno questi ottusi a non rendersi conto del costo di tanti sacrifici? Non pensano al prezzo da pagare per essere un buon cortigiano?... Solo lui è capace di un così nobile sforzo".
Da leggere, dedicandogli pochi e preziosi minuti.

lunedì 9 novembre 2009

Andrej Longo, Chi ha ucciso Sarah?


Quella di Andrej Longo è una Napoli diversa. Esce dagli stereotipi ormai avvitati attorno alle stesse immagini, e si fa vita di tutti i giorni, storie minime, dialoghi veloci. Con il ritmo della sua parlata, porta dentro le case e la Questura, dove si incontrano una madre apprensiva e un giovane poliziotto. Un commissario piegato da un unico e irrimediabile errore, una famiglia che cerca l'impossibile accettazione della perdita di una figlia. In Chi ha ucciso Sarah? (Adelphi, 177 pagg., 17 euro) un ingenuo Acanfora vede per la prima volta gli occhi gelidi di chi è rimasto senza vita, sbatte il muso contro quell'indifferenza che non ti aspetti. Almeno non così, non fino a questo punto. La Napoli di Andrej Longo porta al Vomero e alla Sanità, in mezzo alla criminalità (non organizzata) e alla ricchezza che guarda la città dall'alto della collina. Fa respirare la compassione e il distacco. E' la stessa Napoli sempre pronta a stupirsi e a farsene una ragione di Più o meno alle tre (Meridiano Zero, 2002), di Adelante (Bompiani, 2003), di Dieci (Adelphi, 2007): caleidoscopica, mutante, fatalista, scaltra. Buona.

Con questo romanzo ti avvicini, apparentemente, al poliziesco. Ti serviva per questa storia o avevi voglia di misurarti con il genere?
Fondamentalmente mi serviva per questa storia e non m'interessava misurarmi con il genere, anche perchè amo più il noir del giallo. Tuttavia, essendo anche uno scacchista, un certo fascino l'ho provato a intrecciare tutte le tessere del mosaico.

Perché gli anni Novanta e non oggi? Solo per il piacere di spendere ancora le diecimila lire e non sentire suonare i telefonini o c’è altro?
La prima ragione è che il libro non parla di Napoli. Se avessi ambientato la storia ai giorni nostri si sarebbe pensato (un po' semplicisticamente) alla Napoli di oggi, degradata e indifferente. Invece il problema della paura, la paura del diverso, dell'indifferenza e della solitudine sono tematiche molto attuali oggi in Italia, soprattutto al centro nord. E quindi pur ambientando la storia a Napoli e negli anni '90 ecco che ugualmente potevo parlare dell'Italia di oggi. La seconda ragione è che invece il libro parla di Napoli, ma più che raccontare la Napoli di oggi, prova a raccontare, seppur in maniera sommaria, perchè si è arrivati a questo. Cioè per la nullità della borghesia napoletana che mai si è esposta in prima persona e che anzi, spesso, si è legata al carrozzone della politica e al business della camorra. E poi, non ambientandola ai giorni d'oggi, c'era la possibilità di raccontare la storia di un ragazzo che si ribella a un mondo fatto di compromessi e di falsità.

Tra le tante facce dell’indifferenza, quale ti interessa più raccontare?
L'indifferenza ha varie sfaccettature. Oggi secondo me è interessante la chiusura che le persone hanno, la difficoltà di comunicare, la conseguente solitudine: una sorta di eutanasia dell'anima che riguarda tutti. Ma l'anima, l'uomo, è nato per stare in mezzo ad altri uomini, è nato per comunicare e perciò ne soffre. Questa forma di indifferenza è molto tipica dei giorni nostri e crea un malessere diffuso. Tra l'altro anche l'economia e la politica prediligono uomini solitari, più timorosi e più facilmente manovrabili perchè soli. Tutti soli e tutti uguali. Perciò tutti indifferenti. E sofferenti proprio di questo.

domenica 8 novembre 2009

Michela Murgia, Accabadora

La lettura di Accabadora di Michela Murgia (Einaudi, 164 pagg. 18 euro) nasce da un consiglio, un ottimo consiglio che mi è arrivato da Andrea Vitali, Rosellina Salemi e Sandra Petrignani in questo post, dove chiedevo suggerimenti per buone letture italiane recenti. Nelle pagine di questo gradevole romanzo, che racconta una Sardegna ermetica e generosa, ho trovato uno stile ricercato e fluido, che fonde una coralità di voci fortemente legate al silenzio, all'introspezione e alla forza del non detto. Temi antitetici come il nascere e il morire, la colpa e il perdono, l'empatia e la distanza consumati in un mondo piccolo, che non ha mai il peso della claustrofobia. La dimensione della maternità, così sfaccettata e imprevedibile. Un mondo che ruota attorno a Bonaria Urrai, l'accabadora, la donna che porta la morte ai malati in agonia, quelli per cui solo la pietà ultima e coraggiosa può fare qualcosa.

Grande ricerca stilistica e un equilibro perfetto tra le storie e le parole scelte per raccontarle: quanto è stato spontaneo questo incontro?
Poco. Ci sono voluti tre anni di limature, alla ricerca dell'armonia tra una storia fortemente contestualizzata e un linguaggio che non si comportasse da arredo etnico. Ho lavorato molto di sottrazione, volevo affrontare le questioni del romanzo - morte e maternità - in maniera anche linguisticamente sobria. Però ho cercato anche di non tradire il sardo, perché le lingue sono importanti soprattutto per quello che ti impediscono di dire. Ho mantenuto dove era possibile le costruzioni sintattiche originarie dei dialoghi - che sono stati prima scritti in sardo e poi tradotti - e ho cercato di non imporre concetti astratti propri dell'italiano in una mentalità che non ha nemmeno parole per esprimerli. Il sardo non ha la parola "amore", e la parola "giustizia" non indica mai "la cosa giusta da fare". Ho consegnato il libro solo quando sono stata sicura di essermi avvicinata in maniera soddisfacente a questo risultato.

"Le colpe, come le persone, iniziano a esistere se qualcuno se ne accorge": questo romanzo si consuma nell'incontro tra colpa e perdono, che mai raggiunge la dimensione dello scontro, ma piuttosto del dolore. Questo corrisponde al tuo concetto di crescita e arricchimento interiore degli individui?
Al mio personale concetto di crescita la dialettica tra colpa e perdono appartiene solo in una certa misura, di sicuro per imprinting culturale e religioso, ma non in un'ottica determinista. Nel romanzo è invece molto rilevante perché si tratta di un concetto centrale nell'antropologia sarda, che tende(va) a leggere quasi tutti gli avvenimenti della vita come espressione di quel confronto. Nella storia l'agonia stessa è una questione di colpa, e viene definita non a caso "penitenza di morte", una locuzione direttamente tradotta da un lessico che sapeva raccontare le sofferenze solo come frutto di qualche violazione, nota o ignota.

La madre è una figura ricorrente e contrastante: Bonaria Urrai che porta nel sangue la maternità più profonda, Maria Listru sfuggente e quasi priva di spessore, Giannina Bastìu che smette di esistere per darsi completamente al figlio, Marta Gentili con l'educazione che sta solo nella forma. Da dove arrivano queste donne?
Da un mondo, quello a cavallo tra gli anni '50 e '70, che socialmente non concepiva le persone, ma solo le loro funzioni. Nel mondo rurale di partenza della storia, questa logica vale a maggior ragione, e riguarda tanto la donna che l'uomo. Giannina, la donna-funzione più accentuata, arriva al paradosso di sentirsi piena solo quando il figlio storpio torna ad avere bisogno di lei come un bambino. Il figlio Nicola è a sua volta vittima di un modello di virilità irreformabile, che rispetto a sé stesso ammette esclusivamente funzioni o disfunzioni, e lui sa cosa delle due non può riuscire ad essere. Alla fine le uniche due figure che riescono a piegare il modello di genere a sé stesse sono Bonaria e Andrìa, l'una sovvertendo il mandato collettivo che ha ricevuto, per rendere determinante la volontà di un singolo; l'altro costruendosi un'esistenza da "uomo di valore" meno rigida di quella ereditata, ed esercitandola sovversivamente nel mondo ancora rigidissimo in cui ha scelto di restare.

sabato 7 novembre 2009

Zuppe

Calde, facili, capaci di dare grandi soddisfazioni, veloci, divertenti. Belle. Ho voglia di mangiare zuppe in questo periodo, per contrastare il primo infame freddo che arriva da fuori, o quello che ogni tanto affiora da dentro. Ne desidero la consistenza, il colore, il misto di sapori. Anche per questo esistono delle bibbie, ecco le mie tre.


Le zuppe, 600 piatti delle cucine regionali italiane (Slow Food, 576 pagg., 18 euro): dai brodi ai fumetti di pesce, minestroni, passati e vellutate, con il pane e con il pesce. Le ricette dei cuochi delle osterie d'Italia, spiegate in modo semplice. Un testo base.
Ricette mondiali di zuppe e minestre (Mondadori, 250 pagg., fuori catalogo). Non è più in commercio, purtroppo. Un vero peccato, perché - oltre all'interessante premessa storica - contiene ricette di tutto il mondo, senza eccessi e senza ingredienti impossibili ma, al contrario, tutte realizzabili e divertenti.
Zuppe à porter (Anne-Catherine Bley, Guido Tommasi editore, 82 pagg., 24 euro). Dalla mia casa editrice culinaria preferita, un libro che soddisfa lo sguardo prima del palato, e che ci fa immaginare il cibo servito con stile anche se con poco impegno, come nelle belle fotografie di Akiko Ida. L'autrice ha aperto a Parigi il primo Bar à soupes, zuppe da consumare al volo o da asporto. In questo libro c 'è tutta la sua esperienza.

venerdì 6 novembre 2009

Salvatore Fiume, Un classico moderno

Salvatore Fiume è un artista al quale sono affezionata, perché è stato il primo attraverso il quale mi sono avvicinata all'arte. Per tanti anni, finché non ho iniziato a guardare in giro e a costruire i miei gusti, lui è stato "l'artista". Forme geometriche, colori sgargianti, figure surreali. Donne vistose. All'inizio l'arte per me è stato questo. Ora è altro, perché negli anni si è aggiunto, sostituito e evoluto così tanto da farmi scivolare molto lontano da questo senso della rappresentazione, eppure quando guardo i suoi quadri non posso fare a meno di tornare a quegli anni in cui le mie idee su tutto si formavano poco alla volta, confuse e disordinate, in cerca di un senso. Una reminiscenza leggera, ma inevitabile.
Fino al 9 novembre a Lariofiere di Erba sono esposte 78 opere realizzate Salvatore Fiume nell'arco di 54 anni, dal 1940 al '94, dai primi disegni metafisici degli anni Quaranta e dalle opere su tela a cui ha lavorato fino agli anni Cinquanta, le Città di Statue. Poi il grande dipinto Il Palcoscenico una sintesi della sua vasta attività nella scenografia, le illustrazioni del 1959 per il romanzo Quo Vadis? di Sienkiewicz e le tante figure femminili, in cui Fiume si esprime attraverso il suo gesto ironico.



In sottofondo Anita Ward & Gloria Gaynor, Never Can Say Goodbye

giovedì 5 novembre 2009

Massimo Cassani, Pioggia battente

Sullo sfondo, opere di Umberto Torricelli

Il cadavere di un avvocato sul quale si abbatte la consegna del silenzio, un'indagine parallela alle versioni ufficiali, l'esilio al commissariato milanese e periferico di Città Studi di Sandro Micuzzi, ormai per la seconda volta protagonista dei romanzi di Massimo Cassani: Pioggia battente freschissimo di arrivo in libreria (Sironi, 319 pagg, 17 euro), ambientato in una Milano dove la pioggia non cessa mai. Dove il giro di denaro ad alto livello si mescola con la politica, e dove le escort fanno da contorno abituale. Ma, a questo proposito, Cassani tiene a fare una precisazione: "Questo romanzo è stato scritto nel 2007, e non ha certo lo spirito dell'instant book. L'unica cosa che ho aggiunto da allora è il termine escort, che prima non conoscevo: evidentemente non sono un uomo di mondo, proprio come Micuzzi... Nel tentativo di raccontare il tema del rispetto delle regole, la triade sesso-soldi-potere è emersa in questa forma".

Dunque Sandro Micuzzi si avvia a diventare un personaggio seriale: ma chi è e da dove arriva?
Dal punto di vista letterario, Micuzzi nasce come una sorta di figlio non voluto fino in fondo, una specie di incidente di percorso: in un primo progetto - che non ha mai visto la luce - era un personaggio minore, marginale rispetto alla storia principale. Serviva un commissario che svolgesse un'indagine e a questa figura ho dato un nome e un cognome: Sandro, perché era breve da scrivere, e Micuzzi non lo so neppure io il perché. Forse perché quello era davvero il suo nome, io mi sono solo limitato a prenderne atto. Dal punto di vista umano, Sandro Micuzzi nasce da una famiglia normale, il padre ferroviere, vecchio socialista, la madre casalinga, cattolica, ma senza esagerare. Abitavano a Porta Ticinese, a Porta Cicca, come direbbero i Milanesi vecchio stampo. Il giovane Sandro Micuzzi ha frequentato il liceo classico, ma poi, per spirito di imitazione di un compagno di scuola più grande, è entrato in polizia e lì è rimasto. Alcune di queste cose emergono fin dal primo episodio della serie - "Sottotraccia" - altre invece al lettore non vengono raccontate, ma l'importante è che siano ben presenti nella mia testa, così che quando scrivo possa dare più credibilità possibile al personaggio. Per esempio, io so qual è stato il primo amore di Micuzzi, dove è andato in vacanza la prima volta senza famiglia e con chi, quali materie scolastiche preferiva e quali invece aborriva, perché si è fatto crescere i baffi, se ha mai praticato sport e quali. Il lettore tutte queste cose le ignora, ma imparando a conoscere la personalità di Micuzzi secondo può riuscire a immaginarsele anche lui, come me.

La presenza costante della pioggia, il freddo e la situazione ricattatoria in cui si trova il tuo commissario creano un clima claustrofobico, da città senza vie d’uscita. E’ voluto o subito?
E' vero, su Pioggia battente grava un clima cupo, addirittura claustrofobico, come dici tu. Del resto dopo le vicende raccontate in Sottotraccia, dopo le disavventure che Micuzzi vive nel primo epsiodio, era inevitabile che il personaggio sentisse di trovarsi in una situazione addirittura involutiva. E poi, dai, sul clima dei romanzi influisce anche l'umore dell'autore: per scrivere Sottotraccia e poi, subito a ruota, Pioggia battente ho trascorso quasi tutti i fine settimana chiuso in casa. Micuzzi alla fine forse non ne poteva più. E neppure io.

Che genere di donne ti piace mettere nei tuoi romanzi?
Donne con caratteri particolari, sfaccettate, a loro modo complesse. E non necessariamente belle e impossibili, perfette e levigate come modelle da passarella. L'unica che sembra una statua è la Mariolina di Pioggia battente, che sembra la sosia di Marylin Monroe. Le figure femminili, dal punto di vista narrativo, si prestano molto a letture sovrapposte. Sofia - l'affascinante vicina di casa di Micuzzi - nasconde un terribile segreto nel suo passato; Margherita- la ex moglie del commissario - tanto è odiosa in Sottotraccia quanto si rivela fragile in Pioggia battente. E poi naturalmente Corinna Bottacchi che abbaglia Micuzzi con il suo sorriso aperto e poi cala un asso da lasciarlo senza fiato. Raccontare le donne mi diverte. Quando devo far muovere e parlare l'agente Rosaria Della Vedova il più delle volte mi metto a ridere da solo. Io e lei andiamo molto d'accordo, anche se non ho mai capito che cosa pensi realmente di me. Io la stimo.

martedì 3 novembre 2009

Valerio Varesi, Il commissario Soneri e la mano di Dio


Dopo undici romanzi e tre serie televisive, il commissario Soneri di Valerio Varesi non ha più bisogno di introduzioni. Le nebbie, le città padane, il ritmo sempre privo di affanni, il gusto per la riflessione e l'osservazione. L'introspezione. La scrittura fluida. Costruzioni limate un libro dopo l'altro, fino a quest'ultimo: Il commissario Soneri e la mano di Dio (Frassinelli, 279 pagg, 18 euro), con il fiume gelido che restituisce un cadavere. Il primissimo romanzo, poco conosciuto, è stato pubblicato nel '98 dalla casa editrice Mobydick di Faenza e si intitolava Ultime notizie di una fuga, dove la famiglia Rocchetta sparita nel nulla ricordava fortemente i Carretta di Parma. Questo è il rimasto il suo modo di avvicinarsi alla narrazione: Varesi pesca dalle cronache, si fa suggestionare, immagina scenari suoi e costruisce storie che diventano trasversali, si sganciano dal contingente e affrontano, di volta in volta, un tema dell'animo umano.

Che Soneri troviamo in questo nuovo romanzo?
I lettori mi dicono che il mio commissario è sempre più arrabbiato. Per la verità, non so dargli torto visti i tempi. In questo libro si scontra con un paese che è una comunità chiusa dove si incrociano leggi non scritte, ma sedimentate negli animi, e la modernità. Un posto glocal, come si usa dire. Vi troverà un prete animato da un cristianesimo eversivo e un guardaboschi che si dedica a un compito il cui risultato andrà molto oltre la sua vita: la cura di una grande faggeta prossima al crinale d’Appennino.

Il tema del confronto/scontro con il diverso torna anche in questa storia, ed è quasi una costante delle riflessioni del tuo commissario. Possiamo pensarlo come il pensiero a cui è più legato Soneri?
E’ uno dei temi che attraversano l’oggi dunque anche le sue inchieste. Il diverso non è solo lo straniero, ma anche chi la pensa diversamente. In questo senso, Soneri, è diverso dalla maggior parte delle persone che lo circondano. L’alterità col reale è qualcosa che gli appartiene e non solo perché si confronta con un’umanità sfuggente alle sue domande, ma perché non gli piace il mondo in cui vive. Perché aveva sognato tutto molto diverso. In questo senso è lui il diverso rispetto al conformismo dilagante e allo sfascio della coscienza collettiva.

Tra il Soneri televisivo e quello di carta c’è più distanza o commistione?
Con l’ultima serie tv si è scavato un solco profondo tra il Soneri del piccolo schermo e la mia creatura. Si può dire che le due rappresentazioni, nate da un’unica fonte, hanno preso strade diverse crescendo. L’ambientazione è cambiata col trasferimento a Torino, i personaggi a contorno non ci sono più e in televisione il commissario ha persino cambiato compagna. Io non decido le scelte della Rai, ma mi sembra che la terza serie tv abbia tolto a Nebbie e delitti il suo segno caratterizzante. A Torino, peraltro città bellissima, girano un po’ tutti per via della "film commission" che finanzia i produttori, col risultato che tutti gli sceneggiati si assomigliano. Resta solo l’interpretazione calzante di Barbareschi.

domenica 1 novembre 2009

Alessandro Perissinotto, Per vendetta


"Se ancora avessi una coscienza, mi sentirei in colpa per quanto è accaduto a Efrem. Se avessi una coscienza direi che faccio tutto questo per riconciliarmi con lei. Tutto questo scrivere, questo andare in giro a domandare, questo ricostruire storie". Il distacco dalla narrativa di genere di Alessandro Perissinotto inizia con questo, l'incipit di Per vendetta (Rizzoli, 245 pagg., 17.50 euro), nuovo e appassionato romanzo dello scrittore torinese. Scrittura di alto livello, personaggi costruiti con grande attenzione, scrupolosa articolazione della trama: caratteristiche che mai hanno abbandonato il senso dello scrivere di Perissinotto, dai primi tre titoli dai retaggi storici, fino alle storie del suo personaggio seriale, la psicologa-investigatrice Anna Pavesi, il cui spunto partiva sempre da una curiosità da approfondire, un dettaglio che passa quasi inosservato nel nostro vivere quotidiano e anestetizzato, ma che da qualche parte genera guadagni, traffici illeciti, storie sotterranee da tenere nascoste. In questo Perissinotto non si smentisce nemmeno abbandonando il genere, mentre si misura con una pagina di storia ancora oggi difficile da accettare, fortemente e inutilmente sanguinosa, sgradevole nelle sue implicazioni anche più remote. Si parla di Argentina, di fili sottili e forti che uniscono i destini suoi e dell'Italia, di storie la cui distanza geografica si azzera mentre ci si cala nel loro dramma e nella grande empatia che ancora oggi possono suscitare.

Innanzi tutto, perché questo abbandono del giallo e qual è l’elemento psicologico che trascina il lettore in Per vendetta?
Io credo che le trame poliziesche siano un ottimo strumento per raccontare la realtà, ma, proprio per far sì che il giallo continui ad avere una dignità letteraria, le trame non si possono piegare a qualsiasi esigenza, non si possono usare come semplice pretesto per raccontare altro. Ecco, la storia di Per vendetta non avrebbe potuto porsi in forma di indagine poliziesca, perché i crimini della dittatura argentina sono già stati scoperti dalla Storia. Occorreva quindi che il lettore trovasse il motivo trainante della lettura non nella scoperta del colpevole, ma nella graduale scoperta del vortice di dolore e di follia in cui può essere trascinata la vittima che si vede umiliata dai potenti. Quello che racconto è un caso emblematico, ma potrebbe applicarsi credo alla maggior parte delle persone che, in Argentina, hanno visto i torturatori dei loro cari uscire impuniti dai molti processi farsa che si sono tenuti contro i responsabili della dittatura.

La vendetta è il tema di fondo di questo tuo romanzo, come “consolazione dell’innocente davanti alla mostruosità del potere”. Ma dove stanno i confini gestibili dall’individuo di questo sentimento così pericoloso?
Non esistono confini gestibili dall’individuo. Il romanzo non è un elogio della vendetta, ma una denuncia del rischio che si corre (quello della vendetta appunto) imboccando con troppa facilità la comoda strada del perdono. Troppo spesso si dimentica che la punizione non è solo un modo per redimere i colpevoli, ma è anche un modo per dare consolazione alle vittime. L’assenza di punizioni suscita nel giusto un sentimento di impotenza e di offesa, che sfocia talvolta nella violenza. Talvolta gli Stati sembrano dimenticarsi delle vittime per dedicarsi al recupero dei carnefici, recupero che nel caso dei torturatori argentini appare molto difficile quando non impossibile. La Chiesa cattolica non ha mai chiesto perdono per la sua collaborazione con i dittatori e i vescovi argentini, anche dopo che erano state scoperte le crudeltà della giunta militare, hanno continuato a fare affermazioni a sostegno dei torturatori. La Chiesa cattolica è un'associazione a delinquere che andrebbe messa sotto processo per crimini contro l’umanità. Questo è il senso di Per vendetta.

Viene prima la storia, la scrittura o il tema di partenza, in quest’ultimo lavoro e in generale nel tuo modo di avvicinarti alla narrativa?
Le mie storie nascono sempre da un tema che mi è caro e da uno spunto occasionale. In questo caso era quello della repressione in America del Sud, uno dei primi temi politici ai quali, per ragioni anagrafiche, sono legato: la fine della dittatura argentina coincise con il mio primo periodo di impegno politico. Lo spunto occasionale fu invece un manifesto, che compare anche nel booktrailer del libro, che vidi per le vie di Buenos Aires: ritraeva uno dei delatori del regime, uno di quelli che erano rimasti impuniti e ne indicava l’attuale residenza, come a volerlo additare al pubblico disprezzo. Quel manifesto mi ha dato l’idea per questo romanzo sulle ferite aperte in Argentina.