mercoledì 22 dicembre 2010

Passeggeri

Fotografie di Annalisa Sonzogni
L'essenzialità si replica infinite volte, in un gioco modulare e di rimandi che non ci si stanca di scoprire. Basta anche solo un passo per cambiare la prospettiva, ribaltare un'architettura, trovarsi davanti alla cupola del Duomo, come se all'improvviso fosse calata al centro di Palazzo Terragni. Annalisa Sonzogni, con la mostra Passeggeri, è la prima artista ad aver conquistato gli spazi del Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Como, grazie a un lavoro fotografico che parte dall'architettura essenziale e modulare della Ex Casa del Fascio, palazzo progettato dal razionalista Giuseppe Terragni negli anni Trenta.


Undici fotografie di grande formato - 200x160 cm, montate su pannelli mobili - si alternano a superfici a specchio, creando un gioco di false profondità e di movimenti fuori campo, come quelli dei militari che attraversano l'atrio o percorrono i ballatoi del palazzo, entrando a intermittenza far parte dell'installazione. Il grigio delle divise si armonizza con le sfumature dei vetri, delle pareti, di un insieme virato al neutro assoluto. Così la geometria immobile e autorevole dell'edificio, si presta a giochi che la stravolgono, come la fotografia che ritrae il Duomo dall'interno del palazzo, e lo avvicina a chi guarda grazie al millimetrico gioco di specchi.


Anche il vetrocemento, all'interno delle fotografie diventa un modulo infinito, che crea movimento rispetto al rigore delle pareti progettate da Terragni. Soprattutto le fotografie ritraggono sorci dei piani superiori o delle terrazze, spazi che ormai da anni non sono aperti al pubblico e che si intuiscono, parzialmente, solo con l'osservazione esterna dell'edificio.


Il risultato è divertente e curioso, pur in linea con il rigore di uno dei palazzi più interessanti e attuali dell'architettura comasca. Nata come mostra temporanea a inizio dicembre, la mostra - curata da Christian Galli con la consulenza di Giovanni De Francesco - è diventata ora una installazione permanente, affacciata su Piazza del Popolo.


mercoledì 8 dicembre 2010

Abitare con i libri


Quando ho visto il titolo, era matematico che lo avrei comprato. Perché nonostante i processi di epurazione e alleggerimento degli scaffali, di questa maniacalità non mi libero. Abitare con i libri di Leslie Geddes-Brown (Mondadori, 158 pagg., 29 euro) è un volume fotografico, ma anche un po' voyerista. Già, perché una parte del suo senso (o forse del mio, quello che mi ha spinto a comprarlo) è sbirciare nelle case degli altri e vedere come tengono i libri. Innanzi tutto quanti ne hanno, e poi come li hanno sparpagliati in giro per le stanze in cui vivono, dormono, lavorano, invitano gente. Osservare se sono essenziali o ridondanti, se preferiscono il design o l'utilità. Se vogliono essere originali ad ogni costo. Da questo punto di vista, Abitare con i libri regala una discreta soddisfazione, anche se gli interni sono selezionati e curati, tutto in ordine e ogni dettaglio pensato. Del resto questa mia soddisfazione nello sbirciare è niente se si pensa che trovo normale fermarmi davanti alle vetrine delle agenzie immobiliari per guardare le foto degli interni delle abitazioni in vendita, e poi immaginarmi la gente che vive lì dentro, che si siede sui divani di quel colore, o a cui piacciono i quadretti boschivi appesi al muro. Quasi ogni volta mi tocca prendere atto che non c'è nemmeno una mensolina libraria. Zero.
Ecco perché l'altro aspetto che trovo bello di questo libro, è vedere che da qualche parte c'è un buon numero di persone che in casa accumula tonnellate di carta, che ha letto molto e che dai libri non si separa, che li considera parte integrante della propria esistenza, che ha concepito lo spazio in cui vive come un luogo in cui devono esserci anche i libri. E' sempre un pensiero che conforta. 
Così anch'io ho chiesto agli amici di mandarmi una foto della loro libreria. L'angolo preferito, quello a cui si è più affezionati, il più bello. Sapevo che sarebbero state tutte diverse, che avrei creato un insieme divertente, curioso, che racconta molto di ognuno. Una serie di autoritratti, a loro modo. Questa è una gallery in progress, chi invia uno scatto sarà inserito con grande piacere.

mercoledì 1 dicembre 2010

I miei luoghi

Questa è una lista. Dei posti a cui sono affezionata, in cui mi piace andare anche per non fare niente. Dei superbar in cui bevo il mio cappuccino del mattino, che è forse l'unica cosa che non salto mai. O dove compro cioccolato. Dei ristoranti in cui mi sono divertita guardando nel piatto. E' una lista concentrata in spazi privilegiati, ma anche in evoluzione. Soprattutto è una lista dei momenti in cui si può stare bene anche da soli.

In alto da sin Charlie bar Casatenovo, Al teatro Erba,
C-Caffè Cassago Brianza.
Il Charlie Bar a Casatenovo è uno dei miei posti da anni. Potrei dire che è il mio posto in assoluto, quello del cappuccino perfetto, dell'uso ufficio quando devo fare chiacchierate lunghe, del panino di emergenza per gli scrittori che non hanno cenato prima dell'incontro, del cosa succede in giro e del chi apre e chi chiude. Al teatro a Erba: a questo bar sono affezionata per un'amicizia fraterna, per alcuni momenti passati lì dentro che non mi dimentico, perché la colazione è una vera colazione con le torte, le brioches mini e maxi e i giornali, e perché mi sento sempre un po' a casa. Il C-Caffè è il luogo della celebrazione del cioccolato, con la produzione a vista di praline e tavolette, i blend che uniscono sapori facili e amari che sono una sfida, le confezioni di creme e marmellate ordinate, pulite, essenziali. Belle. 

Herbert Hintner in cucina da Zur Rose
La lista dei ristoranti inizia con Zur Rose, il ristorante di Herbert Hintner ad Appiano sulla Strada del Vino, dove ho cenato al tavolo in cucina, due posti nell'angolo per vivere il via vai della brigata governata come un esercito, con gli ordini gridati in tedesco, il risotto da rifare, il tocco finale dello chef prima di mandare il piatto in sala. Guardi e ordini, vedi come si prepara e chiedi di assaggiare. Vorrei rifarlo, prima o poi. Più vicino, mi piace andare a La Rimessa a Mariano Comense: è una garanzia da sempre, perché lo chef, Sergio Mauri, lavora con vera onestà, da ogni punto di vista. Mi piace andare a La Piazzetta di Montevecchia: tranquillo, luminoso, piatti che sono sempre un piacere, un bella vista dalla terrazza. Con la mia amica preferita vado allo Zen di Milano, il nostro giapponese che è anche qualcosa di più. Ci piazziamo al banco, davanti ai piattini colorati che scorrono: li osserviamo ormai allenate alla cattura, per accaparrarceli prima che se li prendano altri. Il posto strategico è nell'angolo in fondo, quando il nastro trasportatore esce dalla cucina, prima che faccia il giro. Così cerchiamo subito la frutta esotica che abbiamo ribattezzato con i nomi nostri, i ravioli ancora caldi, i sushi artistici. Intanto parliamo, di tanto e di tutto. Di certe cose che in quel modo ci raccontiamo solo lì, con il tè verde nella tazza. Ho fatto centinaia di chilometri per mangiare da Uliassi di Mauro Uliassi e alla Madonnina del Pescatore di Moreno Cedroni a Senigallia, e poi li ho rifatti quei chilometri per mangiare ancora lì. Mi sono divertita a Le tre galline di Torino, che ha un carrello dei formaggi come se ne vedono pochi. Mi sono molto divertita anche da Baldin a Genova Sestri Ponente, perché tutto ha forme diverse da come dovrebbero essere. Parizzi a Parma vale una deviazione mentre si attraversa l'Italia, io l'ho fatto un paio di volte, e lo rifarei. 

Da sin in alto Parco di Montevecchia in tre scorci,  e Parco della Valletta
Al Parco di Montevecchia vado meno di quanto vorrei, ma ci vado appena posso. Ho individuato i posti comodi per leggere, per fare il pic nic (inviti ristretti, massimo due persone), per mettere a terra una coperta e rimanere qualche ora sotto un albero o tra i vigneti. Si sta davvero bene, è una delle mie mete dell'estate, ormai esplorato un pezzo alla volta. Più piccolo - anzi, quasi invisibile nell'economia dei parchi lombardi - è il Parco della Valletta, curato da un gruppo di combattivi volontari che hanno creato percorsi, cercato e studiato insetti e fiori, censito gli alberi. Anche qui ogni tanto gironzolo.

Da sin Lago di Annone e Lago del Segrino 
Sui piccoli laghi vado quando non c'è nessuno. In settimana o fuori stagione. Li guardo, faccio qualche foto. Oppure rimango lì e non faccio niente per una manciata di minuti. Due passi girando attorno, come al Segrino. Oppure mi fermo un po' su quelle spiagge che quando arriva il caldo sono inavvicinabili. Quella di Annone, per esempio, che ogni volta penso che la faranno affondare tutti ammassati a centinaia, e non rimarrà più niente. Invece resiste. Aspetto che se ne vadano tutti, quando finisce l'estate, e poi torno a guardarla.

Ci sono poi i posti degli acquisti. Per il tè in via Odescalchi a Como c'è Tea Worl Shop, e qui trovo tutto: neri, verdi, olong, aromatizzati, bianchi, 50 o 100 grammi. Le teiere giapponesi e quelle trasparenti, i filtri. Poi c'è la spesa buona e divertente. I vini dell'azienda La costa di Perego o Santa Croce di Missaglia, i formaggi di Raffaele Maggioni a Montevecchia, o quelli di capra di Capricio a Cernusco Lombardone. Le farine del Mulino Cazzaniga di Missaglia, dove c'è anche il miele.
Potrei continuare, ma questa lista mi sta prendendo la mano. Mi fermo qui.

domenica 21 novembre 2010

Francesco Piccolo, Momenti di trascurabile felicità

Colazione da Crème, Montorfano (Co)

Adesso dovrò leggere anche gli altri. Perché quando sono arrivata all'ultima riga di Momenti di trascurabile felicità (Einaudi, 134 pagg, 12.50 euro) di Francesco Piccolo, è la prima cosa che ho pensato. L'ho iniziato e finito, un concentrato di un paio d'ore senza interruzione. E' un libro veloce, una carrellata di pagine da una sera, che quasi non stai nemmeno a farci un ragionamento. Agisci solo per simpatia e attrazione. Parte con l'esergo di Goffredo Parise "Non sopporto più le persone che mi annoiano anche pochissimo e mi fanno perdere anche un solo secondo di vita": mi calza alla perfezione, ed è anche coraggioso messo lì, come premessa. Io l'ho letto innanzi tutto perché volevo capire quali erano queste felicità trascurabili, che te le metti via senza nemmeno pensarci, e forse senza accorgertene. Perché a volte sono sfizi, piccole rivincite, soddisfazioni microscopiche, flash di percezione che ti danno un senso inconscio di sicurezza. Qualche cavolata che ti tieni per te senza raccontarla in giro, che tanto agli altri non farebbe lo stesso effetto, e poi sarebbe troppo lunga da far capire. O troppo insignificante per fare la parte di quello che invece un significato glielo dà. Però tutte queste cose esistono, e l'insieme che esce da questo libro è un quotidiano surreale, un po' comico e un po' sciocco, come lo siamo tutti, abbandonati al non senso di alcuni gesti da cui non ci separiamo. Ripetitivi nelle ossessioni che ci danno la certezza di non esserci persi per strada. Ho trovato gesti fotocopia di quelli che faccio io, e allora pensi che lo fanno tutti, e quindi tu non sei nemmeno un millimetro più avanti, ma ti piace lo stesso continuare a pensarlo. Spiare la spesa nei carrelli degli altri e immaginarli dentro casa. Girare a vuoto nelle grandi librerie. Vedere che ogni volta la sbarra del telepass si alza e ti sembra un miracolo. Il sollievo di quando finisce una mostra o uno spettacolo che ti sentivi in dovere di vedere, ma non avevi voglia, e allora non lo puoi più fare e ti autoassolvi.  
Così, mi sono fatta la mia lista di questi momenti.
Quando dico "io in quello schifo di bar non ci vado" perché il cappuccino è una cosa così rinunciabile che se decidi di regalartelo deve essere in un posto bello.
Quando arrivo all'ultima pagina di un libro e penso di non aver buttato via tempo e soldi.
Quando sono nervosa e compro un libro di cucina con foto bellissime per guardare immagini di ricette che non farò mai, ma mi basta già così.
Quando lavo la macchina e vedo che è tornata come nuova.
Quando riesco a non arrivare in ritardo.
Quando ho tempo per non fare niente.
Quando la mia pasticceria inventa un nuovo tipo di cioccolatino.
Quando mi chiedono "ma io cosa ho fatto?" oppure "ma io cosa devo fare?" e vorrei pestarli ma so che anche stavolta non lo farò.
Quando bevo il tè.
Quando faccio ordine e scopro di avere attorno un sacco di spazio di cui mi ero dimenticata.
Quando sul ripiano della libreria c'è ancora un po' di posto per l'ultimo arrivato.
Quando guardo l'estratto conto e non riesce a terrorizzarmi.

lunedì 15 novembre 2010

L'annata migliore


Da cinque anni il Premio Letterario Santa Margherita seleziona i migliori racconti brevi che parlano di vino e cibo. Per loro, oltre al prestigio di essere scelti da una giuria presieduta da Inge Feltrinelli, c'è un divertente valore aggiunto: i tre migliori scritti vengono pubblicati sulle retroetichette delle bottiglie di bianco Santa Margherita. Ogni anno il concorso ha inoltre tre testimonial già affermati, gli "Autori Doc". Per il 2010 sono Dario Voltolini, Giulia Villoresi e Elisabetta Bucciarelli: il suo racconto si intitola L'annata migliore. Lo pubblico per chi non ha fatto in tempo ad accaparrarsi una bottiglia edizione speciale, per chi beve solo rosso e gli astemi.

Le annate fanno bella mostra di sé in ordine rigoroso. Disposte sugli scaffali di legno scuro, ben incerato, con l'etichetta dell'anno incisa su vecchie targhette di peltro. Buone e meno buone. Un centinaio di pezzi per ogni anno. Avrei potuto inserirne anche qualcuno in più, ma ho preferito selezionare. D'altra parte l'offerta è alta e chi arriva fin qui, deve imparare a fidarsi di me. A volte basta un'occhiata, altre invece, devo porre domande. Succede anche di perderci del tempo. Ma è il mio lavoro, non lo scambierei con nessun altro. Spolvero quasi ogni giorno. Tengo tra le mani e rigiro con delicatezza. Lascio nascosti i pezzi più rari. Da quelli non sposto nemmeno la polvere, perché mi pare li protegga e li avvolga. E ne preservi il mistero. Il cliente esigente apprezza se passo il panno morbido davanti ai suoi occhi, mentre con lentezza gli racconto contenuto e contesto. Non miro a convincere ma a proporre. Capita spesso che qualcuno entri di fretta e mi chieda una cosa a caso, gridi un nome, senza sapere davvero quale sia la sua recondita necessità. Non mi scompongo. Lo guardo e lo invito a cercare da sé, certa che non troverà nulla. Non sa l'annata, non conosce lo scaffale. Mi armo di pazienza, lo osservo da tergo e so che il mio bersaglio è il suo temperamento. Sono allenata a osservare. A lungo e a fondo. Se è meditabondo e silenzioso vado diretta al 1960. Ci vuole qualcosa di rivoluzionario e corposo, con profumo e consistenza. Se è triste va bene un pezzo del 2000, frizzante, trasparente, con perlage. Che riempia i sensi e lasci poche tracce. Se prevale una personalità spenta sto attenta anche ai colori. Scelgo qualcosa degli Anni Ottanta, di acceso, intenso e avventuroso. Cerco di capire se ho di fronte un tipo allenato, mettendo alla prova le sue papille gustative. Le mie conserve sott'olio, sul pane ai cereali, sono l'ausilio necessario. Perfette per sublimare il concetto di corpo e colore. Chiedo di assaggiare con la punta della lingua, più sensibile al salato. E poi decido. Ancora ci sono quelli che varcata la soglia, dopo un istante di stupore e meraviglia di fronte all'antro in penombra, afferrano una cosa a caso. Magari sono impegnata con un altro cliente. Non mi accorgo che già sono davanti alla casa e aspettano solo di pagare. Spero, nel mio cuore, che abbiano scelto qualcosa di ordinario. A costoro infatti, mi dispiace consegnare un frammento di esclusivo. L'ultima giacenza, la riserva nell'angolo, quella che vorrei fosse fatta vivere, capita e ricordata dall'intenditore. "Mi dispiace" dico "è già venduto". Riconosco lo sguardo attonito e rapace. Provano con qualcosa d'altro, cercando nei pertugi l'annata lontana, segnalata sulla pagina di un quotidiano magari, senza conoscerne la genesi e le trasformazioni. Non tutto matura come dovrebbe, spesso invecchia soltanto. Cerco di spiegare che con il tempo raramente si affina e si arricchisce il contenuto di una realtà diversa. Poi, d'un tratto, tra l'aggressività riottosa e l'ignoranza si palesa il cercatore, il sapiente. Allora è una danza, io che racconto e lui che va al passo e mi precede, talvolta. Un'appartenenza di amorosi sensi, un canto polifonico di suoni, odori, effervescenze. Mi sento appagata nel cedere il "più prezioso", che sono certa, non ritroverò per molto tempo e forse mai. Faccio appena in tempo a ritrovare il respiro che arriva il procacciatore di novello. L'ultimo nato, sul primo scaffale, appena consegnato, moderno, si direbbe. Cerco di spostare la scelta verso qualcosa che resti nel ricordo. Che tracci una strada, per arrivare lì, al novello. Ma lui lo vuole a tutti i costi del giorno. Che ancora non si è fatto del tutto. Veloce, così come è stato creato. Poco riflessivo. Lo dico sempre, quando guardo i miei libri sugli scaffali, ordinati per annate, rigorosamente in fila. Un buon volume è come un vino buono. Devi conoscere il prima e il dopo, per gustarlo e capirlo e assorbirne gli umori. E non rimanere uguale a come sei, quando è già dentro di te.

sabato 13 novembre 2010

Domingo Villar, La spiaggia degli affogati


Piccole spiagge, un paese che si chiude in pochi scenari, esistenze ancorate a una claustrofobia mentale e ambientale che trattiene tutti legati a un solo luogo e a un accadimento del passato. Pensieri soffocanti, esistenze che da anni fanno i conti con la paura. E' Panxón, località della Galizia dove l'inverno porta l'abbandono e il silenzio. In La spiaggia degli affogati (Kowalski, 450 pagg., 19 euro), l'ispettore di polizia Leo Caldas indaga sulla morte di un pescatore, apparente suicidio, ma in realtà omicidio senza ombra di dubbio, con quelle fascette verdi legate per il verso contrario attorno ai polsi. Arriva da Vigo, dove ha sede il commissariato, preceduto dalla sua fama di speaker radiofonico di una trasmissione in cui i cittadini chiedono giustizia per i piccoli soprusi: un obbligo molto più che un piacere, ma questa è solo una delle tante cose di cui non riesce a liberarsi, e non la più grave. Caldas accantona i pezzi della sua vita, lascia la priorità ai morti ammazzati che lo salvano da tutto il resto, si prende i tempi che gli servono. Aspetta il momento buono, che arriva sempre.
Quella di Domingo Villar è una scrittura limpida e fluida, che si contrappone alla cupezza dei paesaggi e degli animi che racconta. Tutto si muove attraverso sfumature, attente e ragionate, come lo sono le riflessioni sulle parole e sui significati che introducono ogni capitolo. Un rimando che non lascia indifferenti, uno stacco che obbliga a pensare al linguaggio, alle sue suggestioni e ai fraintendimenti. Alle sue generosità e durezze. Un linguaggio con il quale Villar costruisce una storia di inquietudini e prepotenze, disseminata di verità e alleggerita da momenti di ironia molto ben calibrati. Leo Caldas è un bel personaggio, che si ha voglia di trovare da qualche altra parte. Sa andare a fondo di ciò che vede, senza mai scadere nella pesantezza. E' intelligente e sa prendersi le giuste misure, abbastanza da riuscire a convivere con Rafael Estévez, collega dalle reazioni improvvisate e poco ragionate. Vive una sua solitudine che gli permette di comprendere quelle degli altri. Delle vittime, di chi è sopravvissuto. Di suo padre con le vigne e il quaderno degli idioti. Dei criminali, che non sono mai diversi da nessuno.

giovedì 11 novembre 2010

Quando un libro non mi piace

Installazione di Richard Hutten, 2008 
A volte mi basta vedere la copertina per accantonarli. Leggere la quarta e capire che non c'è niente di nuovo, che quella trama non è nelle mie corde, che il numero di pagine è sproporzionato rispetto a ciò che si vuole raccontare. Altre volte abbandono perché con quell'autore ho già dato e mi basta. "Un lettore di professione è in primo luogo chi sa quali libri non leggere" diceva Giorgio Manganelli. Verissimo. Eppure capita di sbagliare valutazione, di leggere attirato da buone intenzioni e promesse, e poi di pensare di aver buttato via del tempo. E quindi l'antipatia che si trascina quel libro, dove lo porta? Può stare lo stesso in libreria tra gli altri? Oppure deve essere regalato? Esistono canali di riciclo dei libri che ci hanno delusi? Ma poi, cos'è che dà più fastidio: la consapevolezza di aver sbagliato valutazione o il tempo sprecato che poteva essere dedicato a qualcosa di meglio?

Alfredo Colitto, scrittore
Quando un libro mi delude, innanzitutto non lo finisco, perché non mi piace perdere tempo a leggere qualcosa che non mi piace. Qualche volta ho buttato dei libri, ma di solito li rispetto troppo, anche quelli brutti. Così di solito li “libero” in qualche luogo di passaggio, sperando che trovino un nuovo padrone che li apprezzerà più di me…

Andrea Fazioli, scrittore
Se un libro mi delude, cerco di non comprarlo. So che può sembrare un paradosso, e sono sicuro che in questo modo passo accanto a numerosi capolavori. Ma con gli anni ho imparato un po’ ad annusare un libro, e riesco a intuire se mi piacerà oppure no. Lo sfoglio, guardo l’inizio, leggiucchio qua e là… magari penso: sicuramente sarà un bel romanzo, ma non fa per me. Qualche volta invece, inevitabilmente, ci casco. In questo caso, devo ammettere che sono spietato: se un libro mi delude, lo butto via. Non ho malanimo, non mi precipito a sconsigliarlo, ma non potrei mai regalare un libro che non mi è piaciuto. Visto che la lettura può essere interrotta (non siamo obbligati a finire i libri brutti!), e che le opinioni sono fatte per essere sbagliate, la cosa che mi dà più fastidio è senz’altro avere speso dei soldi per acquistarlo… Può essere difficile distruggere un libro, cioè un oggetto comunque dotato di una certa nobiltà, ma è necessario (a meno che non si voglia uscire di casa per fare spazio alla carta stampata).  Uno spunto può venire da Pepe Carvalho, l’indimenticabile personaggio creato da Manuel Vazquez Montalban. Carvalho, quando tornava a casa la sera, aveva l’abitudine di bruciare nel caminetto uno dei numerosi libri della sua biblioteca…

Cecilia Scerbanenco, traduttrice
Quando un libro mi delude, lo regalo. Più esattamente, li accumulo e poi, se sono buoni ma non il mio genere, li regalo alla figlia di una mia amica, lettrice affamata, e spesso le chiedo il suo parere. Se sono di un qualche valore. che so, collane, romanzi in serie, li porto in biblioteca e gli chiedo se interessano. Altrimenti, se proprio sono brutti... li infilo, sempre in biblioteca, in una provvidenziale cassettina dei libri "in regalo", da dove chiunque può pescare! Raramente mi capita di sconsigliare un libro: ho dei gusti un po'... da vecchia signora e quello che a me non piace so che magari può piacere tantissimo ad altri. La cosa che mi dà più fastidio è avere sprecato dei soldi e anche essermi sbagliata. Con quel che costano i libri... Sono una sostenitrice degli e-book: se si riuscisse a farli costare poco credo che mi permetterei di sperimentare un po' di più. La cosa peggiore che mi succede è che, quando trovo un libro davvero brutto, me lo dimentico (file erase!): un paio di volte mi è capitato di ricomprarli-rileggerli. Che disgrazia!

Chiara Beretta Mazzotta, editor
Un libro è un cattivo acquisto solo se scritto male, se la storia è orrenda, se i personaggi colano a picco tra le pagine… Insomma, mi comporto con i libri come farebbe con le donne un playboy di bocca buona: quasi sempre, riesco a trovare qualcosa di buono. E se proprio non c’è nulla, un pessimo libro lo porto in agenzia, perché agli autori serve sempre un esempio di cosa non fare. Le delusioni non le sconsiglio, spendo più tempo a consigliare ciò che mi ha convinto e no, non mi curo dell’opinione sbagliata che mi ero fatta. Mi capita pure con le persone e ho imparato a chiudere un occhio… o il libro. 

Dominique Manotti, scrittrice
Quando un libro non mi è piaciuto, lo metto nella mia libreria e lo dimentico. A volte degli amici passano, lo trovano e lo prendono. Ultimamente mi accade spesso - cosa che non facevo quando ero giovane - di chiudere un libro e di abbandonarlo dopo un centinaio di pagine, senza terminarlo. Non sconsiglio un libro, anche se mi ha fatta arrabbiare. Per una questione di stile e per questioni principio. E non regalo mai un libro che non ho apprezzato. Tranne quest'anno: ho traslocato, e sono stata obbligata a sbarazzarmi di cinquemila libri che non potevano trovare posto nel mio nuovo appartamento. Ho passato in rassegna la mia biblioteca, guardato tutto quello che ritenevo avrei voluto far leggere ai miei nipoti, o rileggere io stessa. Ho impiegato molto a decidere di regalare il resto, i libri che non mi sono piaciuti, perché il vero dono è un libro che amiamo... Alla fine un'associazione di carità è venuta a prendersi tutto.

Elisabetta Bucciarelli, scrittrice
Quando un libro non mi piace ci rimango male. Penso di aver perso tempo. E siccome di tempo ne ho poco, mi dimentico presto del libro in questione. Lo emargino in un angolo della libreria e lo seppellisco sotto altri come lui. Presto o tardi si farà di nuovo vivo e allora lo metto nella borsa dell'usato, dove qualcuno proverà a concedergli una seconda possibilità. Che si concede a tutti, nella vita.

Giovanni Choukhadarian, giornalista
Nessun libro mi delude, perché la letteratura non mi illude. Se un libro non mi piace, lo accatasto e dico a tre o quattro persone: "guarda, m'è arrivata 'sta cosa, non m'è piaciuta, la vuoi"? Se la vogliono, gli dò il libro e festa finita. Altrimenti, il libro resta accatastato, fino a che lo metto con altri della catasta in un cartone e finisce vuoi in garage, vuoi nel magazzino di mio fratello.

Jerry Kramsky, scrittore
Se un libro mi delude lo appoggio in libreria assieme agli altri, ma visto che i ripiani stanno debordando, credo che alla prima occasione mi libererò delle pagine traditrici.

Olga Piscitelli, giornalista
Non riesco a trattenermi dal dirlo e/o scriverlo. Un libro brutto, soprattutto se pubblicato in malafede - quindi parlo di quei libri che sono innegabilmente brutti, ma messi lo stesso sul mercato alla ricerca di chissà quale alchimia con il lettore - è molto più che una delusione, è una truffa. L'unica arma del lettore attento è quella di sabotare il meccanismo, quindi basta lanciare non si dice il sabot che non usa più, una scarpina, una ciabattina infradito per fermare le macchine del marketing e limitare i danni delle vendite. La cosa che mi dà più fastidio è l'idea di aver perso tempo a leggere un libro brutto. Se diffondo la notizia che è brutto, recupero quel tempo, perché lo impiego e così non si butta via niente.

domenica 7 novembre 2010

Felice Cimatti, Senza Colpa

Milano, Museo di Storia Naturale
Basterebbe la storia a rendere coinvolgente e inquietante questa lettura, ma Senza colpa di Felice Cimatti (Marcos y Marcos, 158 pagg, 14 euro), è soprattutto una metafora che impone qualche riflessione. Per chi a lungo, come Cimatti, ha studiato il linguaggio degli animali e le possibilità di interazione con la comunicazione umana, ciò che accade nel laboratorio-bunker dal quale scompare lo scienziato John Sauvage non può rimanere confinato al solo mondo animale. Anche se parliamo di scimmie - vale a dire la specie che più di ogni altra si è evoluta nella stessa direzione dell'uomo, anche dal punto di vista emotivo - fin dall'inizio c'è qualcosa che sconfina, che va oltre, nei racconti di questi animali fatti da chi li accudisce, e nelle descrizioni dei loro comportamenti. Gli esperimenti di Sauvage ricordano molto qualcosa realizzato anche con gli umani: simulazioni in cattività per esasperare e studiare l'attitudine alla violenza, mettendo a stretto contatto finti carcerieri e reclusi, quel tanto che basta per dimostrare come i freni inibitori, quando c'è di mezzo l'ambizione alla sopraffazione, sono molto semplici da abbattere. Succede anche qui, tra i primati diventati di proprietà di un laboratorio, che molto ipocritamente si chiama "Centro per lo studio della coscienza animale", dove avvengono sperimentazioni finanziate dal Ministero della Difesa americano. 
L'ispettore Mark Soul è consapevole di non essere acuto né colto, vive di momenti di disagio in mezzo a tutti gli uomini e donne di scienza che popolano il laboratorio, ma per chiudere l'indagine non gli servono grandi armi. Capisce presto che ascoltare è più importante che parlare, e che per smuovere le coscienze a volte bastano piccole azioni. Un noir "etologico" che prende le distanze dal già visto, e che si legge con grande piacere. 

venerdì 5 novembre 2010

Miniartextil

Carole Simard Laflamme, La robe des nations (6.000 abiti/semi in tessuti multietnici).
Installazione realizzata per l'Unesco
Mi appassiona, mi diverte, rimane tra i miei ricordi, perché ogni anno Miniartextil per me è un momento di distacco da tutto. Anche solo mezz'ora, il tempo di osservare le opere e le installazioni dell'ex chiesa di San Francesco prima di infilarmi al lavoro. Quest'anno la mostra ideata da Nazzarena Bortolaso e Mimmo Totaro celebra la ventesima edizione, dal titolo Un giorno di felicità, in omaggio all'opera di Isaac B. Singer, scrittore polacco Premio Nobel per la Letteratura nel 1978, autore di un racconto in cui la luce irrompe ad alleggerire i momenti più difficili. Ad ogni edizione trovo qualcosa su cui riflettere, con il bello di rimanere colpiti da un'immagine. Ormai ho visto centinaia di opere di arte tessile, e ogni anno mi chiedo chi sarà l'artista che saprà andare oltre le aspettative. Quello che mi farà scattare l'ammirazione, sicura di poterne scegliere uno su tutti. Mi guardo attorno e cerco la trasformazione di un materiale come non mi aspettavo, un'immagine a cui ripenserò di tanto in tanto. Qualcosa di semplice ma con una grande forza.

Da sinistra in alto Raffaele Penna, Il grande volo (Carta catramata, ovatta sintetica, lana),
Anila Rubiku, One night only (300 forme di differenti città, suoni e video),
Anna Ray, Knot (cotone e poliestere)
Nobuko Ueda, Performance (baco da seta, filo d'argento)
Ci sono i minitessili, cuore della mostra, trenta centimetri di lato riuniti al centro del percorso espositivo. E poi ci sono le installazioni. Il tratto comune è l'uso di fibre e oggetti che arrivano dalla natura, ma anche un solo filo di cotone, può assumere centinaia di vesti. Fibre di ogni genere, carta, seta, piume, ovatta, legno inchiostri, tessuto e fili di ogni colore e forma, metalli, cenere, aghi di pino, crini di cavallo e intestini di animali essiccati e resi impalpabili, garze e polistirolo, vetro, cotone e piume d'uccello. Qualche artista cerca di valorizzare la bellezza del materiale che ha privilegiato, altri cercano di raccontare una storia, rincorrono un simbolo. Negli anni ho visto migliaia di spilli sospesi in aria assumere una forma indimenticabile, e intrecci preziosi e certosini. Opere nate in questo spazio con lunghissime ore di lavoro e pazienza, e poi distrutte perché troppo delicate per essere trasportate.

Da sinistra in alto Ana Zlatkes, Amor (nylon e legno)
Rosalba Mitaritonna-Tana, ...nell'anno della tigre (carta, fibra di agave, canne)
Milena Anna Korczak, Exuberant enjoyement of life (tela, cotone lino)
Hélène Genvrin e Dario Zeruto, Cascada (550 fogli di carta di cotone fatta a mano, fili di carta di koro)
Quest'anno sono 54 i minitessili in mostra a San Francesco fino a metà novembre, a cui si aggiungono venti installazioni. Miniartextil è anche un percorso per la città di Como: alla Camera di Commercio con l'opera di Onoyama Kazuyo, al Museo Didattico della Seta con altre sei installazioni, tra cui le garze tinte di Anna Moro-Lin e le sfere di tessuto di Anna Pontel, poi i tappeti berberi esposti al Museo Archeologico e l'installazione di Antonio Noia in biblioteca.

Giusy Marchetti, Mi ritorni in mente (Fiat 500 del 1970 ricoperta di fili di lana
lavorati all'uncinetto a punto basso)
Da sinistra Nesem Hartan, Flame (lana, filo di ferro),
Helena Santos, The happiness carpet (carta, cotone, fili, colla, perline d'oro)
Il luogo che da sempre ospita questa mostra aggiunge molta magia ai momenti passati tra le opere d'arte, impone la lentezza del ritmo con cui si scivola in mezzo alle creazioni, tra osservazione di un piccolissimo particolare e la visione d'insieme che offre la navata centrale. Miniartextil è una bella mostra, ma anche un momento in cui si sta bene.

venerdì 29 ottobre 2010

Kevin Power, Giornataccia a Blackrock


L'inizio è un pestaggio fuori da un locale pubblico. Un fatto di cronaca nemmeno troppo originale, con ragazzi feriti, ridotti in coma, rovinati. Morti, a volte. Molto alcol in corpo e nessun motivo valido per scatenare così tanta aggressività. Accade anche a Dublino, nella città ricca e cattolica degli ambienti universitari, e da questo omicidio Kevin Power parte alla ricerca di una logica, un motivo che basti a giustificare la morte di un ragazzo poco più che ventenne, ucciso da una raffica di calci alle testa. Al suo esordio narrativo, con Giornataccia a Blackrock (Marco Tropea, 283 pagg., 16.50 euro) Power racconta con distacco cronachistico la durezza di un vuoto sociale che ingloba ogni aspetto dell’esistenza, dalle amicizie fino ai legami sentimentali, e che esplode nella trascuratezza di una morte di cui nessuno si cura. Conor Harris patisce un’agonia inutile, in mezzo all’indifferenza di chi non presta attenzione all’ennesimo ubriaco buttato a terra fuori da un pub. Come in una perfetta ricostruzione giudiziaria, Power indaga la vita di Conor e dei suoi tre assassini, la loro socialità già radicata in schemi che disegnano un futuro solido e ricco. Le abitazioni con la piscina da usare un paio di giorni all’anno. Le ragazze, la scelta delle migliori, le gelosie che implodono. Fin dalle prime pagine si sa chi ha ucciso, e come si è concluso il processo a loro carico. Le punizioni minime che la legge riserva loro. I fatti sono tutti svelati, quello che c’è da scoprire sta altrove. Nell’educazione, nella pochezza, nel darsi in cambio di nulla. Nell’alcol che scorre a fiumi e che regala protagonismo e identità, che congela i problemi e anestetizza le menti. Ma c’è qualcosa in più in questa ricostruzione, un punto di vista profondo, una sfumatura di emotività che rende ancora più neri i toni di un romanzo e che si stacca dalla pura indagine sociale o giudiziaria. Chi racconta è una voce fuori campo molto vicina a tutto: agli accadimenti e ai suoi protagonisti. Uno sguardo totalizzante che solo a poche pagine dalla fine viene svelato.

domenica 24 ottobre 2010

Francisco Gonzàles Ledesma, Non si deve morire due volte


La copertina mi ha colpita subito, e più volte, durante la lettura, sono tornata a guardarla interrompendo la pagina, o persino una frase. Racchiude una suggestione di potenza narrativa e di metafora, la stessa con cui si apre il libro, una forza che trascina fino all'ultima riga e che inizia con quel drappo rosso che sembra gettato sul volto della sposa. E' lei che cammina verso l’altare, il bouquet in una mano e una pistola nell'altra, nascosta dietro la schiena. Non si deve morire due volte di Francisco Gonzàles Ledesma (Giano, 359 pagg., 17 euro) inizia con un inganno di percezione, spinge a costruirsi una trama interiore già dopo poche pagine, ad anticipare i passaggi successivi, ma ci si sbaglia. Perché anche lo sposo ha una pistola nella fondina. E' tutto calcolato al millimetro, ma lei spara per prima. Sandra Lopez fallisce, rimane viva e può iniziare a raccontare la sua storia, la prima delle tre con cui Ledesma costruisce il suo gioco di intrecci: piani alternati e trame ben distinte, un ritmo che è il primo vero collante di questo ottimo romanzo, dove tutto trova una sua logica e un suo senso di giustizia. Il secondo è Méndez, ispettore fuori binario della polizia di Barcellona, che ha ormai visto molto, che sa ignorare i divieti e le logiche più facili. Mentre avvicina Sandra, lo sfiora Gabri, il killer appena uscito dal carcere, assoldato per un altro delitto che cancellerà il suo debito con chi lo ha aspettato con pazienza e dedizione. Nel suo curiosare, Méndez suona al campanello della villetta fuori città in cui viene tenuta segregata una bimba down, quartiere selezionato come le sue frequentazioni. Silenzi dove la violenza implode grazie alla capacità di Ledesma di lanciare una suggestione e poi ritirasi, quando ormai la trama procede anche da sola. Ogni volta ci si trova seguire un'intuizione e poi a doverla stravolgere, ad affrontare temi nuovi e personaggi che spesso non sono mai del tutto buoni o solamente cattivi. In un affresco in cui i bisogni fittizi superano quelli reali, Ledesma parla di pedofilia e di terrorismo, di valore della vita, di bassezza dell’animo, di amori che sanno aspettare a lungo. Un libro che non si dimentica. 

giovedì 21 ottobre 2010

Cristina Cattaneo, Certezze provvisorie


L'indagine scientifica non porta alla soluzione di ogni mistero. In parte lo avevamo già capito, ma  quando il quadro astratto comincia a prendere confini più definiti, pregi e limiti dell'analisi di ogni prova con microscopio e reagenti, si delineano con maggiore chiarezza e concretezza. Certezze provvisorie, terzo libro scritto con fini divulgativi dall'anatomopatologa forense Cristina Cattaneo (Mondadori, 180 pagg., 17 euro), arriva a mettere ordine in questa percezione, spiegando come i limiti oggettivi di un settore che rimane fondamentale all'interno delle indagini giudiziarie, non ne determinano la svalutazione, ma piuttosto l'onestà. A questo si aggiunge lo stimolo costante ad andare sempre più avanti nella capacità di lettura di uno scheletro o di un ambiente naturale in cui si è consumato un delitto. Elemento fondamentale del Labanof di Milano - Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense - Cristina Cattaneo negli anni ha portato avanti uno dei progetti multidisciplinari più all'avanguardia in Italia nella ricerca scientifica applicata allo studio dei resti umani: qui ci si occupa di morti di difficile lettura, scheletri a cui si tenta di dare un'identità, reperti difficili da datare. La lettura di un dettaglio, come una invisibile frattura ossea o il doppio foro su un cranio, diventa fondamentale per stravolgere la ricostruzione di un delitto, rivelare le modalità che hanno portato alla morte di un ragazzo o di una donna. Non sempre però questo è possibile: a volte la percentuale di sostanza tossica presente nel midollo osseo di uno scheletro, non è sufficiente a stabilire se quell'avvelenamento possa essere stato causa del decesso, oppure il tentativo di stabilire la maggiore o minore età di chi ha commesso un grave crimine (il cui destino processuale cambierebbe in modo significativo), non arriva a dare risposte sicure attraverso la sola analisi delle ossa dei suoi polsi. 
Qui emerge il volto più umano di questa professione e delle storie che rivela e racconta, dove i limiti non sono sconfitte, ma stimoli a seguire altre strade di ricerca, e dove l'emotività e l'entusiasmo costituiscono un patrimonio fondamentale, messo a disposizione di un'intera collettività e di chi aspetta, anche per anni, delle risposte.

martedì 21 settembre 2010

Nuova Passione


Scrittori. Tanti e protagonisti più di tutti. Dall'Italia di ogni latitudine, dai paesi dell'Europa e dall'altra parte del mondo. Al debutto e no. Emozionati, alcuni. Per bambini e per grandi. Tutto intorno movimenti che si incrociano, giochi per imparare a disegnare e cibi divertenti, da guardare e da replicare. Arte, tanta, che cambia e che invade le sale, il parco, gli sguardi. Carabinieri e finanzieri, elicotteri scenografici mai visti a un festival. Amici, libri, fotografie, poesie. Sabato per dare forma, domenica per partire. Qualche ansia che non deve mai mancare. Gli entusiasmi di tutti, la voglia di esserci. L'intensità piena, la curiosità, la sorpresa e il divertimento. Quindici giorni per viverlo anche quest'anno fino in fondo questo festival che da nove anni resiste, si arricchisce, si ripulisce, corregge gli errori e rinnova la fantasia. 
Fino al 10 ottobre sarò qui, a ogni minuto di ogni incontro.


venerdì 10 settembre 2010

Patrizia Valduga / Giovanni Manfredini, Manfred


Ci dava la prigione del destino 
solo qualche ora d'aria per l'amore 
che per destino ha solo il suo declino. 
Si aspetta e si riaspetta e poi si muore. 

(Patrizia Valduga / Giovanni Manfredini, Manfred, Mondadori, 87 pagg., 10.40 euro) 

sabato 4 settembre 2010

Epurazione

Cascade Cordoba. Installazione di Alicia Martin 

Parecchi anni fa ho avuto la mia intensa stagione di lettura dei romanzi di Manuel Vazquez Montalban. Tra le tante particolarità di Pepe Carvalho, il suo investigatore, ce n'era una con cui non riuscivo a fare i conti. In momenti particolari - di amarezza, delusione o chiusura di una parentesi - tornava a casa, sceglieva con cura un volume dalla sua ricca biblioteca, e lo gettava nel camino. Assaporava la distruzione di quelle pagine e del loro banale o inutile contenuto gustandosi un calice di vino rosso, o pregustando la specialità culinaria a cui si sarebbe dedicato da lì a poco.
Non capivo. Nella mia visione sacrale dell'oggetto libro, non riuscivo a comprendere questo piacere. Oltretutto partorito da uno scrittore, uomo di cultura e di libri. Poi ci sono arrivata anch'io. Dopo anni di accumulo compulsivo e irrazionale di ogni pezzo di carta minimamente rilegato, da un po' di tempo a questa parte mi sto alleggerendo. Gli scaffali delle mie librerie, ormai arrampicate su ogni angolo di muro, non sono mai stati così vuoti, in grado di lasciare spazio alle cose migliori che arriveranno. 
L'epurazione ha le sue regole. Le prime fasi sono state timidissime, con attacchi solo a ciò che era palesemente superfluo. Ora ho sviluppato un metodo. A volte è un gesto apparentemente istantaneo, ma in realtà sempre ragionato: vedo il libro, capisco che non mi ha dato e mai mi darà nulla, allungo il braccio e lascio che si apra il vuoto sullo scaffale. Altre volte è pensato per giorni: li guardo, li rumino, penso al contenuto e a chi lo ha scritto, e poi sopprimo. Ultimamente l'eliminazione di un paio di opere omnie di italiani, mi ha regalato un grande senso di leggerezza e liberazione. Un po' alla volta, attorno a me rimane solo il bello e il buono, ciò che ha valore, che mi regala qualcosa ogni volta che l'occhio cade sul dorso e legge il titolo. Ora stanno in primo piano, liberati dal superfluo che schiamazzava attorno a loro.
Parallelamente ho sviluppato nobilissimi canali di smaltimento: biblioteche di carceri, bookcrossing, vicini di casa, conoscenti prima increduli e poi felici di ricevere volumi in perfette condizioni. Libri la cui inutilità sociale e umana racchiude due opposti che li riscatta: la privazione e il dono.

giovedì 2 settembre 2010

Hans Tuzzi, L'ora incerta fra il cane e il lupo

Senigallia, il castello 

Una Milano un po' nostalgica, impietosa con gli uomini e generosa con le donne. Accentua il divario tra i diversi spessori e le onestà altalenanti degli individui, offre riflettori facili a chi spende tutto se stesso nell'esteriorità e nella fretta, custodisce i segreti di chi segue i propri ritmi, fermandosi a riflettere. Ho letto con grande piacere L'ora incerta fra il cane e il lupo di Hans Tuzzi (Bollati Boringhieri, 165 pagg., 15 euro), uno dei libri migliori in cui sono incappata negli ultimi tempi, e di certo la sorpresa più gradita tra gli autori italiani. Un giallo che inizia con l'omicidio di una giovane donna, vittima di un'aggressione ferocissima a pochi metri dall'abbazia di Chiaravalle. Sfigurata dal suo assassino, Elisabetta Crimoli non rivela subito la sua identità, ma il dubbio durerà solo poche ore. Il commissario Melis si muove in una città ristretta attorno agli ambienti intellettuali a cui appartiene la vittima, ma è costretto a sconfinare tra le stanze - decisamente meno gradite - degli arricchiti. Arrivano da qui le figure maschili più misere, caratteri e difetti portati all'estremo e ridicolizzati persino nella scelta dei nomi, compagni di vita della donna uccisa, eppure inspiegabilmente distanti da lei nella loro pochezza fastidiosa. Mentre Melis e la sua squadra - ben assortita e altrettanto ben raccontata - si avvicinano a un epilogo che non era facilmente immaginabile, la figura di Elisabetta Crimoli si compone nella sua bellezza, e quasi ci dispiace che le sia toccata la parte della vittima. La scrittura è immediata pur nella sua ricercatezza, impone il giusto ritmo e tiene alta l'attenzione, rende davvero difficile abbandonare la lettura. Si arriva all'ultima pagina con le percezione che alle spalle di questo libro ci sia molto di più di quello che viene raccontato, un patrimonio di conoscenza e cultura che traspare nei dettagli, e con la soddisfazione di avergli dedicato il proprio tempo. 

domenica 29 agosto 2010

Senigallia


Ci sono luoghi che ti fanno stare bene. Senza farci troppi ragionamenti, senza essere eccezionali o inediti. Ti fanno stare bene e basta. Perché quando sei lì succede sempre qualche piccola cosa bella. Perché ti lasciano il tempo di pensare a cose che ti riguardano e che ti fanno fare un passettino in avanti. Perché ti rendi conto che da lì il distacco verso tutto ciò che ti circonda è positivo, costruttivo, con un ingrediente di equilibrio che non sospettavi di possedere.
Per questo, ogni tanto, devo tornare a Senigallia.
Quest'anno riporto a casa il gusto di pesci freschissimi, l'aperitivo da Uliassi sulla terrazza della Rotonda, il porto al tramonto, una borsata di libri letti e finiti prima del tempo, l'incursione in libreria per non rischiare l'astinenza. Un'amica con cui sono stata bene, la spiaggia vissuta fino all'ultimo raggio di sole, un caldo torrido e bellissimo, un po' di surreale dei vicini di ombrellone. 
Anche questa volta, so che tornerò. 

venerdì 27 agosto 2010

Fred Vargas e Baudoin, I quattro fiumi


Senigallia, La rotonda

Una rapina all'uomo sbagliato. Rabbioso, vendicativo, che insegue e uccide. Fred Vargas racconta, Baudoin disegna e il commissario Adamsberg indaga. Il risultato è I quattro fiumi (Einaudi, 223 pagg., 17 euro) graphic novel che per la prima volta dà corpo a un racconto della scrittrice francese. Si legge in un soffio, appassiona come un piccolo romanzo e in più dà volto ai personaggi, dipinge i luoghi che li circondano. Come in un film i cui ritmi sono governati dal lettore. Adamsberg indaga nella paura, nell'impossibilità di credere a un'evidenza. Segue i suoi percorsi cerebrali portati avanti in solitaria, guadagna fiducia. Insegue un ragazzo che attraversa Parigi in pattini a rotelle e mette in relazione quest'ultimo omicidio - frettoloso e quindi un po' anomalo - con la serie che lo ha preceduto. Nel fascicolo nascosto su uno scaffale c'è solo un titolo: "Delitti dell'Ariete". Non esiste un sospettato, un movente, un denominatore comune tra le vittime. Solo uno sfregio uguale per tutti. Parte da qui Adamsberg, e arriva a chiudere il suo cerchio di pensieri.

domenica 15 agosto 2010

Esmahan Aykol, Hotel Bosforo


Kati Hirschel, nata in Germania e ormai radicata nel Bosforo, gestisce la libreria del giallo di Istanbul. Vivace, appassionata, sveglia e con una minima esperienza di investigazioni e delitti, non può fare a meno di intervenire quando un regista tedesco viene assassinato nella stanza del più bell’albergo della capitale. Potrebbe passare inosservato, se non fosse che la protagonista del film, e ben presto sospettata dell’omicidio, è una sua amica tedesca che non vede da anni, Petra Vogel. Con Hotel Bosforo (Sellerio, 265 pagg., 13 euro) Esmahan Aykol, nata in Turchia e ormai divisa tra il Bosforo e la Germania, debutta in Italia con il primo romanzo della serie con protagonista Kati Hirschel. Un giallo che racconta una città dai ritmi incomprensibili per chi è abituato all’occidente, le ossequiosità delle abitudini mediterranee, i cibi che scandiscono le giornate. Una città di lettori, a giudicare dalle fortune della libreria di Kati, ma anche di criminalità organizzata, di interessi che si incrociano, e che si allargano all’Europa. In quella apparente confusione caleidoscopica di un luogo che non fa distinzioni tra giorno e notte, e dove i peggiori delinquenti mostrano una loro signorilità mista alle ricchezze, la soluzione di quell’omicidio iniziale sta in un legame tutt’altro che semplice da trovare, che all’improvviso cambia del tutto la direzione dell’indagine di Kati. Un libro che suscita simpatia, come la sua autrice, e che si legge con molta scioltezza. 

domenica 8 agosto 2010

Eric Fottorino, Baci da cinema

Villa Monastero, Varenna (Lc)

Ho letto Baci da cinema di Eric Fottorino (Nutrimenti, 185 pagg, 16 euro) per diversi motivi. Innanzi tutto mi incuriosiva il fatto che il direttore di Le Monde, il principale quotidiano francese, si fosse misurato con la narrativa, e in particolare con una storia d'amore. Da un cinquantenne che è partito dal nulla - da un semplice articolo inviato in redazione quando era poco più che ventenne - ed ha scalato fino ai vertici la gerarchia del giornalismo francese, mi aspettavo qualcosa di speciale: un romanzo denso, colmo di atmosfere, con personaggi in qualche modo emotivamente superiori. In questo devo dire subito che non mi ha deluso. E' un libro ben scritto, che scivola facilmente nella lettura, e che mantiene sempre alta la dignità. Forse avevo anche voglia di una storia d'amore, per cambiare un po' le cifre dei tanti gialli e noir che sto leggendo, ma temevo la banalità e il già detto, quindi ho aspettato qualcosa che promettesse serietà negli ingredienti principali. Il terzo motivo è che ogni tanto mi piace sentire parlare francese, evocare nomi, luoghi e quelle atmosfere dalle quali ogni intellettuale, soprattutto se parigino, non sa staccarsi. In Baci da cinema non manca nulla di tutto questo. Fottorino si muove sullo sfondo onnipresente del grande cinema di Francia, racconta alla Truffaut una storia sentimentale forte ma non incrollabile tra un giovane avvocato e una donna sposata e quindi sfuggente, affascinante senza eccessi. Due personaggi molti reali, anche e soprattutto nell'impegno che mettono in questo modo di amarsi così casuale. Sullo sfondo c'è il cinema delle dive, la figura paterna del protagonista che gli ha lasciato tanti ricordi ma anche troppi dubbi, a partire dall'identità della madre che non gli è mai stata svelata. E' un libro che si legge volentieri, con una sua gradevolezza e bellezza, ma in cui manca la scintilla della passione.

sabato 31 luglio 2010

Antonio Paolacci, Salto d'ottava


Una grande area dismessa, ex fabbrica e ora "Rottame", contenitore indiscriminato di scarti. Cuore e scenario di una storia, luogo in cui si incontrano e si generano contrasti, involucro silenzioso e imponente che inghiotte ogni violenza. Paura e soggezione, spinta cinica a superare i limiti imposti dalla civiltà, solitudine, abbandono verso ogni genere di caduta al ribasso. Rimane questo sapore quando si termina di leggere Salto d'ottava di Antonio Paolacci (Perdisa, 116 pagg., 10 euro). La vita di un Matteo adolescente prima e dopo, che si proietta di continuo verso il suo gemello, o il suo se stesso ormai affermato e annoiato. La ricchezza inutile, il distacco da tutti, le prostituzioni che cambiano forma. Sensazioni che si intrecciano mentre la storia cambia scenario, con lo scheletro di cemento che governa  ogni impulso. L'assenza di ogni ansia morale lascia spazio alle sole azioni, all'osservazione di un corpo privo di vita, che un tempo era un ragazzo e ora è qualcosa privo di forma. 

Da dove arriva il salto d'ottava, e perché una metafora musicale?
Del concetto di ottava musicale si potrebbe parlare fino allo sfinimento: c’entra con la filosofia, la fisica, la metafisica, la psicologia. Il salto d’ottava indica il passaggio da una nota alla stessa nota di un'ottava maggiore o minore: il suono è un altro ma la vibrazione è la stessa. La metafora, nel romanzo, è relativa al tempo che passa, o meglio alla percezione di giorni, stagioni, anni che sembrano uguali a loro stessi, cioè di una dialettica tra mutamento e ripetizione. Il concetto ha più di un senso: storico, individuale, pubblico. 
Quale Matteo ha determinato la creazione dell'altro?
Nessuno dei due. La struttura del racconto è stata l'idea da cui sono partito, per cui i personaggi sono nati assolutamente insieme. Le due storie dovevano essere avvicinate fino a essere comprese in uno sguardo unico. Andavano portate al presente del racconto sotto gli occhi del lettore, dove hanno lo stesso peso e pari dignità narrativa. 
In questo libro ci sono molta solitudine, indifferenza, assenza di paura, nichilismo. Anche nel protagonista più giovane. Quando guardi gli adolescenti vedi questo?
Il romanzo racconta un reato molto preciso, punito dalla legge, e in parallelo parla di gradi diversi di innocenza e colpa, di responsabilità, di indifferenza sociale, oltre che individuale. In tutto questo, tra adulti e adolescenti non c’è diversità. Il meccanismo stesso del racconto accosta età diverse anche per questo: per non delimitare il campo a un’età transitoria come le altre. Chiaro che ogni personaggio ha le sue caratteristiche, e un adolescente si comporterà come tale, con tutte le premesse e le conseguenze del caso, ma io, da narratore, quando guardo gli adolescenti non vedo altro che persone e se li penso come personaggi non vedo altro che storie.

mercoledì 28 luglio 2010

La Lignano di Giorgio Scerbanenco

Tra un anno, il 28 luglio 2011, sarà il centenario della sua nascita. E’ scomparso nel 1969, e ancora la sua attualità spiazzante non smette di sorprendere. La varietà di storie e di umanità che ha saputo trasformare in narrazione, con il suo stile essenziale e tagliente, rimane un traguardo inarrivabile. Si è cimentato con il noir, il rosa, la fantascienza, ma nessuno stile ha saputo alleggerire il senso della crudezza del vivere e una malinconia di fondo che ha portato sempre con sé, in ogni sua frase. Vladimir Giorgio Šerbanenko era figlio di un’italiana e di un ufficiale della Russia imperiale di Kiev, morto durante la rivoluzione russa. Una vita difficile e movimentata, a lungo condizionata da problemi economici, ma per lui, diventato Giorgio Scerbanenco, è stata una grande opportunità di osservazione della ricchezza umana, sfociata nella capacità di raccontare le sue storie come se le avesse vissute in prima persona. Viste e sentite ancora prima che immaginate. Fatte proprie con un senso di empatia altissimo e immediato. Un grande patrimonio che negli anni è diventato protagonista di una produzione sterminata, iniziata nel 1940, suddivisa tra i gialli che hanno tracciato le basi della narrativa di genere italiana – con Arthur Jelling e Duca Lamberti - e il rosa, riscattato dall’essere considerato una categoria marginale e per sole lettrici. Ormai scrittore affermato ma anche a lungo giornalista, ha passato gli ultimi anni a Lignano Sabbiadoro, prima di morire il 27 ottobre 1969. Ci sono tornata nei giorni scorsi, a vedere il “suo” bar Gabbiano sulla spiaggia, la palazzina dove il suo appartamento è ancora come allora, la strada che gli hanno dedicato solo un paio di anni fa, la spiaggia profonda e le prime edizioni dei suoi libri di maggiore successo. Tra questi, Non rimanere soli è tra i miei preferiti di sempre.











domenica 25 luglio 2010

Teresa Solana, Scorciatoia per il paradiso


Leggere Teresa Solana è divertente. In Scorciatoia per il paradiso (Sellerio, 350 pagg., 14 euro) ci si perde in una quantità di personaggi surreali ma allo stesso tempo molto reali, prodotto di disperazioni tenute sotto controllo o di cialtronismi che hanno raggiunto livelli professionali notevoli. L’omicidio di Marina Dolç, scrittrice di romanzi rosa dalle poche qualità e dai molti successi (ogni mondo editoriale ha le sue…) scatena una caccia all’omicida che incrocia numerosi piani esistenziali, e obbliga a mettere in scena una sequenza di vittime del caso, di cui la Solana è bravissima ideatrice. La situazione iniziale è classica ed evoca inevitabilmente Agatha Christie: il delitto nella stanza chiusa di un hotel, con la fallimentare ricostruzione per stanare chi, tra i tanti ospiti della cerimonia di premiazione della vittima, si sarebbe potuto allontanare per quei pochi e fatali minuti. Si scopre subito che l’omicidio replica alla perfezione quello raccontato dalla Dolç nel suo nuovo libro, non ancora dato alle stampe, ma la suggestione di questa coincidenza viene tenuta perfettamente a bada e non monopolizza la trama. Dopo un poco convincente esordio della polizia barcellonese, che arresta il sospettato più facile e a portata di mano, l’indagine passa ai presunti fratelli e presunti investigatori Eduardo e Borja Masdéu. E’ l’occasione per raccontare un mondo – in questo caso quello editoriale e culturale catalano - che cerca sempre la via più breve per risolvere i problemi, che si gioca la maggior parte delle sue carte in rapporti umani fatti di apparenze, ma che non può fare a meno di essere spassoso e maldestro. Ci sono traduttori privi di talento e di quattrini, critici letterari invidiosi, agenti editoriali mossi solo dal denaro. Persino lo chef pluridecorato Ferran Adrià fa la sua comparsa ad una festa, dove lascerà il segno. In tutto questo l’unico che dimostra equilibrio mentale e buon senso è, per forza di cose, chi racconta in prima persona: Eduardo Masdéu, custode di piccoli segreti e testimone delle vite parallele di suo fratello.