Brutto, sporco, confusionario, dispersivo, affollato. Luogo di lettura, di viaggio, di immagini veloci, di distrazione, di parole parole e parole spese senza sosta. Di salti acrobatici fra conversazioni e argomenti.
Viaggiare in due su un treno d'estate, tra carrozze e scompartimenti, sedili da scrutare ai raggi x prima di decidere di passarci sei ore senza scollarsi. Ottocento chilometri in ventiquattro ore, diciotto ore di conversazione che non si arresta, come un virus o l'aggressione di una scarica elettrica. Frasi rincorse sul fischio di un treno, animali impagliati nelle vetrine di un bar davanti alla stazione, biglietti doppi che doppi non sono. Le porte che si chiudono alle tue spalle e ti sfiorano quasi imprigionandoti, mentre ti butti giù da una carrozza. Capotreni che staccano il tuo il biglietto e per un attimo lasciano scorrere negli occhi qualcosa di quasi sognante, che intuisci ma che non saprai mai. Scariche veloci di adrenalina, di risate, di sorpresa, di assurdo. Il treno può essere anche così. Un luogo. Il contenitore di una parentesi che ti ricorderai a lungo.
L'ultimo mi ha portata - in un'escursione termica sbalzata in poche ore da trenta gradi a otto e poi ancora a trenta - verso Dalla parte del torto, di Elisabetta Bucciarelli, pubblicato da Mursia lo scorso anno. Quattrocento pagine che scorrono in una Milano primaverile dove si uccide e si muore, dove la violenza più cruda e il piacere estetico si fondono. Dove, per qualche pagina, entra in scena uno dei tanti mondi a sé, quello del sesso estremo, protagonista non assoluto della trama, ma sempre capace di strappare le curiosità più profonde di chi ha letto e di chi si prepara leggere. Dove l'ispettore di polizia Maria Dolores Vergani gioca di doppia sponda tra un lavoro di indagine in cui primeggia, e la ricerca di un equilibrio dei sentimenti che è condannata a non trovare, perché così deve essere e perché diversamente non sarebbe credibile.
Le immagini sono tutte qui dentro, nel ritmo in crescendo di
Koyaanisqatsi (
"vita in tumulto", non a caso), film documentario del 1982 di Godfrey Reggio, costato sei anni di lavoro, e capace di rivoluzionare il concetto di cinematografia con la sua assenza di dialoghi e l'innovazione assoluta dei montaggi video.