giovedì 27 novembre 2008

Cerco marito

maturo che creda nel rapporto di coppia, che
sappia comprenderla ed amarla per tutta la
vita. Tel. 031.267545


Monica Galanti, Matrimoniale, cm 12x16, tempera e collage


lunedì 24 novembre 2008

Psicofarmaci, follie simulate, artiste geniali

Iperpubblicizzati, iperspecializzati, iperconsigliati. Un desiderio di felicità che non conosce status né latitudine, che ha creato un'economia, alimentato un settore farmacologico, inculcato il bisogno di serenità artificiale. Lo piscofarmaco è un acquisto silenzioso che oggi coinvolge quattro milioni di italiani, un fenomeno di massa sottovalutato, che nell'ultimo secolo ha prodotto quasi quattrocento etichette medicinali a livello mondiale, sempre più specializzate e calibrate per disinnescare qualsiasi malessere generato dalle emozioni, dall'ansia, dal dolore, da ogni genere di stato d'animo non controllabile. Un bene di consumo quasi banalizzato, da vendere a prescindere dal reale bisogno: così appare in Psychofarmers (Isbn, 299 pagg., 16.50 euro) quello che dovrebbe essere un prodotto scientifico specialistico ed esclusivo. Lo storico Pietro Adamo e il neuropsichiatra Stefano Benzoni, hanno ricostruito la sua evoluzione negli ultimi cento anni, la sua capacità di ritagliarsi uno spazio nel carnet delle esigenze collettive, hanno scovato i manifesti delle campagne pubblicitarie e le storie dei nomi celebri che ne hanno fatto un uso più o meno controllato, e che alla pillolina della felicità devono la vita o la morte. L'altro piano di lettura di questo libro è invece una sorta di guida al non-utilizzo degli psicofarmaci, attraverso una carrellata di notizie utili, chiare e spesso quasi sconosciute, da leggere in sequenza o facendo zapping tra le pagine, lasciandosi catturare da immagini e titoli.
Eppure, secondo lo psichiatra portoghese José Luís Pio Abreu, autore del geniale Come diventare un malato di mente (Voland, 173 pagg., 13 euro) ognuno di noi ha - in fasi alterne e secondo i propri gusti - il diritto di essere un po’ fobico o paranoico, magari leggermente ossessivo o anche schizoide. Così il medico ha steso un manuale con tutte le indicazioni del caso per immedesimarsi in un disturbo clinico piuttosto che in un altro. La partenza, rigorosa, fa riferimento alle sei classificazioni adottate dalle istituzioni psichiatriche statunitensi, e poi Abreu si lancia in una serie di consigli pratici. Volete misurarvi in un episodio maniacale? Basta prendere antidepressivi in quantità industriale, dormire poco e lavorare molto, passare qualche notte in bianco e fare progetti. Il resto verrà da sé. Per il delirio ossessivo-compulsivo si parte dall'idea di dover essere perfetti, mentre se si ambisce a un disturbo dissociativo occorre iniziare a imitare sistematicamente gli altri, e a questo proposito si può prendere come punto di riferimento uno qualsiasi dei personaggi televisivi o dello spettacolo. Ogni scelta implica un breve tirocinio, ma Abreu garantisce che ognuno di noi può farcela.

Su questi temi, con grande sarcasmo, ha lavorato l'artista Silvia Levenson: il risultato sta in opere come Be Happy.

La musica, per stemperare i pensieri, è questa.



sabato 22 novembre 2008

Tenco e il tango

I suoi testi non hanno età, come si dice delle canzoni che attraversano i decenni senza sentirne il peso. In più, il ritmo sensuale del tango, riesce a renderli ancora più intriganti, più coinvolgenti. Riesce a trasformarli in qualcosa che si insinua sotto pelle, un effetto taumaturgico per i momenti di crisi o di particolare struggimento. Luigi Tenco, suicida la notte del 27 febbraio 1967 dopo l'eliminazione dal Festival di Sanremo, non ha fatto in tempo a raccontarli e viverli quei testi, e ciò che rimane ancora oggi sono le parole pure e quella tristezza di fondo che ha caratterizzato i pochi anni della sua esistenza. La sua fine rimane ancora oggi un mistero, che diventa protagonista di una storia scritta da Carlo Lucarelli e trasformata in uno spettacolo teatrale di Giorgio Ugozzoli. In Tenco a ritmo di tango (Fandango, 60 pagine, 18 euro con cd), un ispettore di polizia viene incaricato di investigare sul viaggio fatto dal cantante a Buenos Aires nel dicembre 1965. Diventa lo spunto per ritrovare una locanda dove ogni sera un piccolo gruppo suona le canzoni di Tenco a ritmo di tango. Un'atmosfera che ridisegna gli accordi, sposta gli accenti delle parole, trova un passo più deciso e grida con più forza, rispetto alle versioni originali, il disprezzo o la disperazione. Dieci canzoni musicalmente riscritte da Alessandro Nidi, e interpretate dalle voci dell'insuperabile Mascia Foschi e di Adolfo Margiotta.

Musica qui e qui, ma anche qui


giovedì 20 novembre 2008

Ecuador fondente da dipendenza

Parte dalle fave grezze e purissime, e si trasforma in una tavoletta sottile, dal gusto amarognolo e intrigante. Spiegare la produzione artigianale e limitata di questo cioccolato è come raccontare una piccola storia. Un percorso che nei suoi passaggi si può racchiudere in un piatto, quello qui sopra, e che procede secondo una lavorazione che in Italia affrontano in pochissimi, sei o sette in tutto. Perché il cioccolato che mangiamo abitualmente, anche il più prestigioso e famoso, quasi sempre viene prodotto a partire dalla pasta di cacao, un semilavorato che prende forma di tavoletta nell'ultima fase. Da Colzani Caffè di Cassago Brianza (non a caso bar dell'anno 2009 del Gambero Rosso) si parte invece dai semi di cacao, che arrivano nel reparto pasticceria e qui affrontano la tostatura, forti di un'esperienza affinata con il caffé, e poi la frantumazione. Un macchinario apposito, che soffia delicatamente su questa materia prima, separa i gusci dalla granella, la quale viene amalgamata con il trenta per cento di zucchero di canna, per ottenere l'equilibrio tra l'amaro pungente ma non troppo aggressivo del cacao Ecuador, e un risultato finale quasi da dipendenza psicologica. Una sapore che ti fa iniziare una tavoletta e ti rende incapace di riavvolgerla nella carta. Che ti richiama dopo pochi passi se hai avuto la forza di chiuderla in frigo dopo averne assaggiato solo un pezzettino. Perché, non dimentichiamolo, il fondente è un genere di conforto che non ha eguali, e la delusione di un gusto privo di spina dorsale è un rischio che in certi momenti non si può correre.
Raccontata nelle poche righe di questo blog, questa storia sembra facile e alla portata di tutti. Ma se così fosse un cioccolato del genere non sarebbe merce così rara, e nei retrobottega delle pasticcerie di tutta Italia arriverebbero quintali di fave di cacao, e non barattoloni di pasta già lavorata, destinata quasi sempre a dare forma a un gusto omologato.

Quanto alla musica, mentre scrivevo ho pensato a questa.


domenica 16 novembre 2008

Dizionario affettivo della lingua italiana

Ognuno ha la sua parola magica, evocativa. La parola che porta da sempre con sé. Quella che mette allegria o nella quale si identifica. Così, quando sugli scaffali delle novità editoriali ho visto questo Dizionario affettivo della lingua italiana, l’ho subito catturato. Quando ho visto che all’interno erano elencate le parole dell’emotività, degli affetti, dell’esprimersi di trecentotrenta scrittori italiani, ho subito capito che – oltre a leggerlo con curiosità, saltando avanti e indietro - finalmente avrei fatto anch’io la stessa cosa.
Devo dire che la trovata di Matteo B. Bianchi (curatore assieme a Giorgio Vasta del volume pubblicato da Fandango, 253 pagg., 10 euro ben spesi), ha un altro grande pregio: quello di far scoprire autori nuovi, attraverso la simpatia e la curiosità suscitate dai termini che hanno scelto per rappresentarli. Nell’insieme, purtroppo, qualcuno scivola nel banale e nell’autocitazione, ma sono casi rari e perdonabili. Le argomentazioni scelte dai protagonisti vanno da una riga a mezza pagina, anche se personalmente trovo che, nella maggior parte dei casi, le più efficaci siano quelle sintetiche e fulminanti, capaci di darti un’immagine o una sensazione immediata. Come Francesca Duranti con la sua “Brevità”: non usare mai due righe quando ne basta una.

La mia parola di sempre è raminga, quel randagismo nobile dei Sepolcri foscoliani il cui suono modulato corrisponde alla dolcezza del suo significato, a un vagare senza meta e senza affanno, ma con la malinconia di fondo che porta nel suo intimo chi teme di non aver costruito abbastanza. Il leggero senso di provvisorietà che riaffiora in chi non ha messo radici profonde nell’anima e nella vita, e non sempre è certo di aver fatto la scelta giusta.

Altra parola: scrivere. Perché lo scrivere corrisponde alla mia vita. Il mio scrivere si è trasformato in lavoro. La lettura di ciò che hanno scritto altri in uno dei piaceri più grandi, in esperienza e in condivisione, in passione continua. I miei amici, quasi tutti, sono scrittori e giornalisti. La cottimizzazione della mia scrittura che cerca di raccontare le vite, gli errori, i drammi e i desideri di persone che loro malgrado escono dall’anonimato, ogni mese viene rinchiusa in una busta paga. Quando sono nervosa penso solo che odio scrivere. Non penso a cambiare, scappare, allontanarmi, penso solo a come smettere di scrivere, a bloccare le mie dita che da anni scivolano sulla tastiera.

Ultima parola: vediamo. Anzi, “poi vediamo”. E’ la mia via di fuga da sempre, la premessa al non decidere subito o mai, al non pensare, al non fare non dire non muoversi non esprimersi. E’ l’allontanamento facile. Un’essenza di libertà a portata di mano, senza dover spiegare.

Il tutto sulle note di Ligabue


sabato 15 novembre 2008

Joseph Roth, La tela di ragno

Mi rendo conto che forse è un passaggio un po' lungo per un post, ma penso che questa pagina di Joseph Roth sia uno degli affreschi più belli e corali della letteratura europea. Da leggere con una musica altrettanto avvolgente in sottofondo.
Antonin Dvorak, sinfonia Dal nuovo mondo

"Il mattino si annunciò grigio. Pioveva. Theodor aspettò la sua compagnia alla stazione. Alle otto doveva essere schierata in città. Era domenica. La città sembrava sonnolenta. Pioveva.
Alle nove gli operai manifestarono nel viale Unter den Linden. I gruppi della gioventù nazionalista a Charlottenburg. Tra un posto e l'altro vi erano molte strade, case, poliziotti. Ma la città era in attesa di uno scontro.
Alle nove pioveva ancora. Gli operai avanzavano nella pioggia grigia. Grigi come la pioggia, e come la pioggia senza fine. Venivano da quartieri grigi come la pioggia dal cielo grigio. Erano una pioggia d'autunno. Incessante, inesorabile, sommessa. Diffondevano malinconia. Venivano avanti i fornai coi volti esangui come la pasta del pane, senza muscoli e senza forza; quelli dei torni, dalle mani indurite e dalle spalle sbilenche; i soffiatori del vetro, che non avrebbero oltrepassato i trent'anni per quella polvere preziosa, mortale e scintillante che si ficcava nei loro polmoni. Venivano avanti i fabbricanti di spazzole dalle orbite incavate per la polvere di setole e i peli nei pori della pelle. Venivano avanti giovani operaie segnate dalla fatica, con movimenti svelti e facce consunte. Venivano avanti i falegnami. Sapevano di legno e di trucioli. E i giganteschi imballatori, alti e imponenti come armadi di quercia. Venivano avanti gli operai delle fabbriche di birra, pestando pesanti il terreno come grandi tronchi d'albero che avessero imparato a camminare; venivano avanti gli incisori, la polvere sottile del metallo nelle pieghe dei loro visi; i compositori dei giornali che facevano la notte, che per dieci anni e più non avevano passato nel loro letto una sola notte; hanno occhi arrossati e guance pallide e non conoscono la luce del giorno. Vengono avanti i lastricatori, calpestando la strada che loro stessi hanno costruito, eppure estranei ad essa e storditi dal suo splendore, dalla sua ampiezza, dalla sua signorilità; li seguono motoristi e ferrovieri. Nella loro testa treni neri continuano a correre, segnali a cambiare di colore, locomotive a ululare, campanelle di bronzo a suonare.
(...) Il corteo dei lavoratori canta l'Internazionale. Cantano stonati, con gole riarse. Cantano stonati ma con forza commovente. Canta una forza che piange, una violenza rotta dai singhiozzi. (...) Due forze si stanno affrontando, la massa di coloro che hanno il potere e quella di coloro che non l'hanno, le catene della polizia sono spezzate, la fame avanza contro la sazietà (...)
Ma poi, come quello di una bestia ferita, si alza il lamento di un clacson, e da lontano arriva lo scampanellio disperato dei tram, fischi laceranti, trombe che piangono come bambini. Un cane calpestato ulula con voce umana, divenuto umano nell'ora della sua morte miseranda; c'è uno strepitare di catene e sbarre che chiudono porte, un altro spero echeggia".

Joseph Roth, La tela di ragno (1923). Traduzione di Anna Rosa Azzone Zweifel (in Romanzi brevi, Adelphi, 1983) .


venerdì 14 novembre 2008

Omar di Monopoli, Uomini e cani

Personaggi ben costruiti, che si lanciano con forza fuori da qualsiasi immutabile vivere quotidiano, con dialoghi credibili e belli. Potrei trovare altri aggettivi, ma mi piace definirli semplicemente belli questi dialoghi diretti di Omar di Monopoli in Uomini e cani (Isbn, 234 pagg. 13 euro). Frasi che si rincorrono prive di virgolettati, essenziali fino all'osso. Pensieri puri e istantanei, specchio di protagonisti dalle esistenze scheletriche. Ho trovato, in queste pagine dal ritmo western ma dall'anima nera, lo sfogo di una giustizia privata che, per quanto ci abbiano insegnato che è sempre sbagliata, a volte riscatta tutti quanti. Ho trovato storie che non iniziano e non finiscono perché a volte la vita è così, si trascina inerte senza chiudersi, attaccata all'unico lembo che ci rimane o che si crede di avere. E poi quella marea scura inarrestabile di fondo che è il sale di molte scritture, anche della sua, mentre pesca le atmosfere di un sud Italia cupo, forzatamente privo di debolezze e rassegnato a sopravvivere.

In sottofondo una musica bella e inquietante, come questa.

mercoledì 5 novembre 2008

Usa, 5 novembre 2008


lunedì 3 novembre 2008

Perissinotto, La società dell'indagine

Quali meccanismi hanno determinato il successo del giallo? Perché il poliziesco ci piace più di altri generi nonostante l'abbondanza di delitti reali? Difficile dare una risposta esaustiva ad una domanda ormai ricorrente, soprattutto da quando il mercato editoriale, ma anche cinematografico e televisivo si è dovuto piegare alle richieste del pubblico. La stessa domanda ce la siamo posta più volte nelle nostre riflessioni, pubbliche o private. Me la sono posta io nel confronto quotidiano con una cronaca che ormai è sfiancante da ogni punto di vista, ma che non mi ha tolto il gusto per i toni crudi della narrazione, per il nero, per la celebrazione di personaggi distruttivi. A dare una risposta a questi meccanismi mentali, che non sono solo un esercizio di stile, ci prova Alessandro Perissinotto con un breve saggio La società dell'indagine, pubblicato da Bompiani (105 pagg., 9 euro). Una lettura gradevole, come del resto i suoi romanzi, perché Perissinotto è uno che sa osservare e spiegare, che riduce ai minimi termini e riporta tutto agli schemi più essenziali, quelli che servono a comprendere il come e il perché. La massima di fondo è di una verità fulminante, per quanto decisamente ruvida: "Il poliziesco è soltanto la continua ricerca della verità. Noi che viviamo nella società della menzogna non possiamo che amarlo". Basterebbe questo a chiudere il discorso, poche parole inattaccabili.
Parlarne con lui serve però ad andare oltre, ad abbracciare la dimensione narrativa vera e propria del genere, e a valorizzarla. "Il fatto che i gialli si vendessero in stazione ha fatto a lungo confondere il contenitore con il contenuto - dice - ma una cosa è il confezionamento, e quindi il processo commerciale, un’altra cosa è il prodotto. Non a caso in questi ultimi anni gli intellettuali hanno riscoperto Simenon come un grande della letteratura". Il genere, che piaccia o no, ha svolto un ruolo sociale molto forte, perché la letteratura poliziesca ci parla di qualcosa che spesso i giornali non raccontano. Così il suo successo diventa trasversale, abbraccia ogni ceto sociale. "La gente ama il poliziesco perché racconta paure, tensioni e trame nascoste - prosegue Perissinotto - I giallisti non creano la psicosi del complotto, ma rendono praticabili delle piste che diversamente non lo sono. Suggeriscono che esistono realtà che vale la pena di conoscere in profondità".
Questa la premessa. C'è poi l'aspetto consolatorio del poliziesco, un meccanismo essenziale, quasi di sopravvivenza, in una società in cui "la morte è presenza quotidiana, eppure distante. La rappresentazione narrativa della morte, nel suo essere fittizia, fornisce un conforto: si muore sempre per qualcosa. In realtà sappiamo bene che si muore anche per niente, per una caduta o un incidente, per una banalità. La consolazione fornita dal poliziesco è proprio questa: non ti preoccupare, si muore sempre per qualcosa. Se controlliamo la causa, controlliamo anche la morte, perché nel poliziesco arriva sempre per un motivo preciso e riconoscibile. Se non vai in quel quartiere pericoloso sarai al sicuro, se non ti mischierai con certe situazioni non ti accadrà nulla. Il poliziesco letterario tuttavia non sempre è consolatorio, o non lo è abbastanza, come hanno dimostrato Gadda o Vàzquez Montalban, nei cui romanzi il colpevole sfugge. Così il bisogno di un poliziesco consolatorio ha trovato spazio in televisione, dove è diventato di gruppo: la squadra, la scuola di polizia, il corpo militare. Questa diventa la consolazione, il contenitore sociale, quello che ti invita a prendere la realtà così com’è e a viverla, in un paese magnifico, dove c’è qualcuno che interviene e risolve. Dove, non a caso, tutti i corpi di polizia hanno trovato spazio in una serie tv".

In chiusura, ecco la musica