domenica 31 maggio 2009

Arte&Natura a Bellinzona

La locandina della mostra: da sinistra opere di Ercan Richter, Geneviève Asse, Olivier Debré

Sono due le stanze che mi hanno particolarmente colpita, e che hanno segnato nettamente l'eleganza di una mostra decisamente bella, ben organizzata e che lascia un senso di intelligente sobrietà: gli azzurri a stesura uniforme, solo appena alterati da un sottile tratto di bianco di Geneviève Asse, e gli ori smussati dalle tinte calde e naturali, dagli schizzi tinta su tinta e dai leggeri grumi di Michael Biberstein.

Michael Biberstein

La mostra Arte&Natura occupa una ventina di stanze del Museo Villa dei Cedri di Bellinzona, con opere sono che sono l'espressione del naturalismo informale, dell’astrazione purissima, dell'espressività che conserva la sua forza pur ridotta all'estrema sintesi concettuale. Assenza di forme, respiro uniforme, campate di colore carico di carattere, di forza lasciata dal segno del pennello, dell'incisione appena visibile, della linea sfumata. Il rapporto con la natura è costruito dagli artisti in un viaggio tra la terra e il cielo, nello spazio del quadro, sui fogli di carta, sulla tela o sui diversi materiali. Ci si abbandona ai pensieri seduti in mezzo alle cinque tele del cinese Hsiao Chin, tra le sue forme concentriche, le onde magnetiche e le volute morbide dai colori detonanti, ricorrendo una visione astrale ripensata.

Hsiao Chin

Farhad Ostovani, iraniano, espone, tra le altre, la lunga linea scurissima di Waterland: due orizzonti immobili, opposti e carichi di materia. Al primo piano sono tre le stanze molto divertenti: ospitano rispettivamente le quattro lacche su metallo di Stephan Spicher, i polittici su granito e legno di Gianfredo Camesi e le pennellate disordinate, interrotte, nervose e quasi adolescenziali di Günter Förg, che compongono insiemi mai noiosi o ripetitivi, pur simili. Infine voglio citare un'altra opera prima di chiudere, rigorosa e essenziale, da guardare per ore senza stancarsi: Maningrida dello svizzero Bernard Lüthi.

Günter Förg

Gli artisti di Arte&Natura, curata da Matteo Bianchi, sono:
Camilla Adami, Geneviève Asse, André Bazaine, Michael Biberstein, Giuseppe Bolzani, Gianfredo Camesi, Massimo Cavalli, Hsiao Chin, Vieira da Silva, Gérard de Palézieux, Olivier Debré, Enrico Della Torre, Günter Förg, Alexandre Hollan, Bernhard Lüthi, John Mavurndjul, Paolo Mazzuchelli, Piet Moget, Wilfrid Moser, Giulia Napoleone, Farhad Ostovani, Ercan Richter, Stephan Spicher, Arpad Szenes, Pierre Tal Coat, Petra Weiss.

Piet Moget

martedì 26 maggio 2009

Silvia Levenson

Un'alzatina da centrotavola con tre gradevolissime bombe a mano. Delicatissime shopper in vetro per la spesa di ogni giorno, che custodiscono mannaie da macelleria. Abiti fatti di lamette da barba saldamente unite tra loro, scarpe con tacco trasparente e filo spinato, cuori aperti a colpi di forbice e cristallizzati nel vetro solido, lame pendenti nel salotto di casa, corpetti che invitano al tatto e feriscono con i chiodi sporgenti. Sono i lavori dell'artista Silvia Levenson, spietate letture del quotidiano cariche di humor e di elegante violenza. Insofferenze e durissime spigolosità portate a galla nei vestitini di filo spinato della Bambina spinosa, con una margherita bianca sul cuore, i chiodi sottili e dolorosi che circondano il completino della Bambina cattiva, gli abitini di sottile e fragilissimo vetro del Piccolo tesoro. Poi la serie Ti vedo un po' nervosa, la mia preferita nella sua ironia glaciale, o ancora il pavimento Be happy: piastrellato di Prozac, Lexotan, Tavor, Valium.... Opere che sono una intelligente negazione dell'ipocrisia, del formalismo prefabbricato, della stabile sicurezza del quotidiano privo di scosse. 





sabato 23 maggio 2009

Gianfranco Nerozzi, Il cerchio muto

"È una notte qualsiasi. Dunque è una normale tragica notte qualsiasi. Domattina i giornali saranno pieni di numeri, di statistiche. Ma la storia non cambierà: qualcuno – probabilmente giovane, magari ubriaco – avrà finito di vivere sull’asfalto di una strada, poco lontano da una discoteca. Ma nessuno ci pensa. Perché sono cose che capitano agli altri...."
Verità allo stato puro, premessa di un esercizio narrativo che genera di paura. Tensione e inquietudine costruite con le parole, con la lentezza delle descrizioni e del divenire, con i piccoli dettagli presenti o assenti. Gianfranco Nerozzi lo fa da anni, lo ha fatto anche in quest'ultimo Il cerchio muto (Nord, 580 pagg., 18.60 euro), perché creare la tensione è la sua grande capacità. Creare le premesse di una irrequietezza che di invade mentre leggi, che non se ne va quando finisci quel blocco di quasi seicento pagine che ti ha tenuto incollato per giorni.
Incidenti apparentemente casuali ma che hanno invece un legame forte e tragico, due protagonisti ben delineati, forti e capaci di governare la storia. Una scrittura di tutto rispetto.

Cos'è l'horror oggi in narrativa e perché ti sei legato a questo genere?
Oggi l’horror è fondamentalmente quello che è sempre stato, ieri e ieri l’altro, nei secoli e nei secoli così sia: endoscopia di uno stato di follia, discesa in fondo (al nero!), immaginazione senza limiti e format estremo della paura. I modelli si ripetono e si trasformano. Partendo da una base antica: l’esorcizzazione dei nostri demoni cattivi e la comprensione di quelli buoni. Poi cambiano gli stili, i linguaggi. Ma la pulsione resta sempre invariata: quel desiderio di rivoluzionare la speranza, il desiderio di scoprire una fottuta isola che non c’è: con tutta quella luce nascosta da portare fuori per ispezionare la tenebra e rendercela amica. Io non sono particolarmente legato al genere horror, mi sento piuttosto come se lui fosse avvinghiato a me, tentacoli attorno all’anima, viticci della malinconia… Quello che m’interessa di più, come artista e come scrittore, quello che mi costringe a farmi avviluppare, è quella potenzialità intrinseca che il genere fantastico permette di avere: fantasia allo stato brado che può esplicarsi in ogni direzione, senza limiti. Uscita continua dal cerchio, evasione… Questioni di cuore per cui vale la pena boccheggiare, che ti rendono in grado di lanciare grida più assordanti.

Cosa fa paura e come si costruisce una pagina che scatena incubi o terrore? Ci sono ingredienti irrinunciabili?
La paura deriva sempre e comunque da un senso di spiazzamento nei confronti di uno status quo che impazzisce, che si altera. Quindi un equilibrio che all’improvviso si spezza. E allora ci sentiamo inermi, fragili… Pronti per cercare di cambiare le cose, forse… Gli ingredienti di base della ricetta: sensibilità, verosimiglianza, dosaggio ritmico. Essere in grado di entrare a fondo nella paura che ti sei scelta, combatterla, per poterla trasmettere con la giusta intensità, infilarsi dentro a ogni personaggio, dentro agli odori e ai sapori: coinvolgimento assoluto, quindi. Poi il tutto deve muoversi dentro a un contesto riconoscibile, il famoso orrore quotidiano di cui parla e scrive King (e anche io se è per quello… ). Parola d’ordine: immedesimazione totale di dentro e di fuori. Queste melodie di parole e immagini, agitate e non mescolate, debbono essere tradotte e trasmesse con il giusto ritmo, come in una partitura musicale che funziona, che possa accodarsi ai battiti del cuore e portarli nella dimensione giusta, là dove il cielo è più nero.

Qual è il personaggio che ritieni meglio riuscito in questo romanzo?
Nel Cerchio muto, così come in tutti gli altri miei romanzi, non ci sono personaggi che ritengo meglio riusciti di altri. Sono quelli lì. Sono loro. Io li sento, e li porto fuori, tutti quanti, e li faccio muovere, anzi: li assisto mentre si muovono. Tutti servono e tutti sono lì perché debbono esserci. Anche il più sgradevole conserva un’ombra di tenerezza, e anche il più buono, il più eroico, detiene un’ombra di dannazione. Così come nella vita di ognuno: il sorriso gelido di mister Hyde e la risata nervosa di Paperino che convivono. Luci e ombre e via andare... Personaggi muti imprigionati dentro al cerchio, che scappano fuori: in mezzo a tutte le grida del mondo.


venerdì 22 maggio 2009

In apparente velocità

Sergio Mozzanica, fotografo
Il Parco della Valletta







lunedì 18 maggio 2009

Tre autori per un "Nudo"

Si intitola Nudo, è fatto di pagine bianche e nasce da un'idea di Miranda Biondi, Cinzia Donati e Enzo Rielli (Giovane Holden Edizioni, pagg. 112, 5 euro). Basta sfogliarlo per mettere da parte le considerazioni più banali che spingerebbero a considerarlo inutile o facilmente provocatorio, perché l'avvicendarsi di quel bianco assoluto racchiuso in un oggetto che siamo abituati a vedere zeppo di lettere, parole e frasi, di significati ad ogni costo, ci spinge ad apprezzare l'importanza del nulla, della sobrietà, della pulizia. L'importanza di sgombrare il campo con un gesto estremo, da tutto ciò che si è stratificato fino a perdersi. Dalle migliaia di concetti, immagini, idee, opinioni, teorie, vissuti, racconti, per abbandonarsi a questa unica e assoluta idea di assenza, racchiusa in un libro che non è un fine ma un mezzo capace di riportarci all'esigenza di mettere ordine, di ripartire da capo.

Il libro bianco sembra nascere dall’esigenza estrema di sobrietà, o addirittura di rigore, che mette fine all’eccesso di parole. Ci sono esempi particolari che hanno scatenato questa idea di Nudo?
(Risponde Miranda Biondi, autore e editore). "Sicuramente l’idea della pagina bianca è semplice. "Non è originale, l’hanno già avuta" ci ha obiettato qualcuno. Ma ovvio che non è originale. A oggi sinceramente crediamo si possa scrivere qualcosa di originale a livello di contenuto? L’originalità sta nello stile, nel modo di esporre idee e concetti che – mettiamoci l’anima in pace – qualcuno ha già avuto prima di noi. Oppure vogliamo sostenere che è stato scritto un solo romanzo giallo? Un solo romanzo d’amore? Un solo romanzo d’avventura? Una sola silloge? Da addetta al settore editoriale la prima cosa che faccio è cestinare qualsiasi tipo di manoscritto che arrivi in redazione targato “originalissimo” oppure preceduto da affermazioni del tipo "sono il nuovo Carver" o ancora "sono la nuova Emily Dickinson". Nell’essere se stessi sta l’unica originalità possibile. Dunque, siamo consapevoli che esiste un libro bianco stampato credo, in proprio, da tre giovani che cercavano di rispondere in questo modo alla domanda "Che sappiamo delle donne?" Esistono anche molti libri concepiti come idee regalo sfiziose che hanno molte pagine bianche, sono i famosi libri "Le domande d’amore". Tutti questi hanno un obiettivo preciso, rispondere a una domanda. Nudo questo obiettivo non ce l’ha".

Perché tre autori per un libro privo di contenuti?
(Risponde Enzo Rielli, autore). "Il libro Nudo non è privo di contenuti! Non è solo provocazione, o solo invito alla riflessione, o solo divertimento... Ma una proposta nuova e articolata. Tra noi tre coautori esistono posizioni diverse sia come obiettivo sia come motivazioni di fondo che ci hanno spinto alla realizzazione. Siamo in tre e non solo! Ognuno con la propria idea di fondo!"

Cosa vi ha più divertiti nel realizzare questo progetto?
(Risponde Cinzia Donati, autore). "La parte più divertente? Direi in assoluto la correzione delle bozze... ".


mercoledì 13 maggio 2009

Patrick Fogli, Vite spericolate

Esce oggi, per la collana Verdenero di Edizioni Ambiente, il nuovo noir di Patrick Fogli, Vite spericolate (203 pagg., 12 euro). Una tema di ecomafia, come impone la collana che sta raccogliendo i nomi più rappresentativi del genere italiano, ed un tema che non si finisce mai di conoscere, di comprendere nelle sue conseguenze silenziose e devastanti: l'amianto. Una storia che affonda in un dolore vissuto da vicino, seguito nelle sue pieghe più laceranti, che racconta di un killer capace di entrare nei polmoni con un solo respiro consumato nel luogo sbagliato, primo atto di un cammino lentissimo ma inesorabile. 

Il 6 aprile 2009 a Torino iniziava il maxi processo contro la multinazionale Eternit. Tremila persone e organizzazioni si sono costituite parti civili contro i due ex proprietari della multinazionale colpevoli di aver messo in pericolo la vita e l'integrità fisica di un gran numero di lavoratori e cittadini per amianto diffuso nei luoghi di lavoro. Vent'anni dopo la chiusura dello stabilimento, a Casale Monferrato si contano ogni anno cinquanta casi di malattie legate all'amianto e i medici locali stimano che 900 persone moriranno nei prossimi dieci anni. Vite spericolate parla di questo.

Perché l’amianto? Pensi che non se ne sia parlato abbastanza? 
"Essenzialmente per due motivi. Il primo è personale. Il mesotelioma da amianto ha colpito nella famiglia di due persone a cui voglio molto bene. Allora non pensavo nemmeno minimamente a questo libro, però è stato abbastanza immediato, una volta deciso di scriverlo, ricordarsi di quello che era successo. Il secondo motivo si lega alla seconda domanda. No, non se ne è parlato abbastanza. Se ne è parlato in certi momenti – la vicenda dei treni all'amianto, per esempio – o in contesti locali – penso alla Casaralta, a Bologna, per esempio – ma troppo poco a livello nazionale. Ora è appena partito il processo alla Eternit, un procedimento che riguarda oltre duemila morti. Non una cosa da poco. E non mi sembra di sentire tutto questo rumore sui giornali o in televisione". 

Il tuo metodo di scrittura si basa su un lavoro documentaristico preliminare. Lo hai fatto anche per questo libro e con che fonti? 
"Sì, anche stavolta, anche se meno che nel caso de Il tempo infranto. Le fonti sono molte. Tanto per citarne qualcuna ci sono diversi documentari che si possono trovare in rete, anche su youtube e che riportano testimonianze dirette di operai o famigliari di operai, racconti di cosa accadeva quando la fabbrica era aperta, di come veniva lavorato l'amianto. Mi sono informato sulle procedure mediche che riguardano il tentativo di curare il mesotelioma, il decorso della malattia, i sintomi, il modo in cui l'amianto attacca il sistema respiratorio e crea i presupposti per lo sviluppo del tumore. Molte cose. Anche qui, come nei casi precedenti, non è per niente difficile trovare materiale. Serve solo un po' di curiosità".

Cosa ti piace di questa collana?
"La voglia di raccontare quello che, spesso e volentieri, nessuno può o vuole raccontare".


L'intervista di Elisabetta Bucciarelli su Booksweb.tv





lunedì 11 maggio 2009

Olen Steinhauer, Il turista

Quattro anni fa lo avevo preso per caso: era il suo primo libro tradotto in italiano, e nel momento in cui sono arrivata all'ultima pagina ho deciso che era uno dei dieci migliori libri mai letti. Si intitolava Il ponte dei sospiri, edito da Neri Pozza e scritto da Olen Steinhauer, romanziere americano trapiantato a Budapest, che oggi ho avuto il grande piacere di conoscere e intervistare. Da pochi giorni è uscito un suo secondo romanzo, Il turista (Giano, pagg. 431, 18 euro), che mi ha fatto ritornare alla scrittura, allo stile e allo spessore di quel suo primo libro che ho tanto amato. Una spy story letteraria, una scrittura morbida e un esperimento ben riuscito come solo raramente accade a quegli scrittori che utilizzano il genere per superarlo, per rappresentare gli individui senza mistificazioni, i rapporti tra le persone nella loro verità più essenziale. Milo Weaver è il protagonista, una nuova figura rispetto a Emil Brod del precedente romanzo, che fu il primo di una serie di cinque non ancora tradotti. Milo è una ex spia, anzi, un "turista", figure estranee all'intelligence e con mansioni parallele rispetto ai servizi segreti ufficiali, invisibili eppure irrinunciabili, potenti più di chiunque altro. Viene richiamato in servizio per indagare su una sua collega, l'unica con cui abbia mai costruito un legame profondo.

Perché le spy story?
"Ho sempre amato lo spionaggio letterario, la capacità di combinare il genere con la qualità della scrittura, come in Le Carré. Ci sono elementi che mi affascinano, come il rapporto delle persone con la menzogna, e la possibilità di sviluppare questi aspetti a livelli altissimi. Rispetto al poliziesco, non devi conoscere la polizia e le sue procedure e amare quel mondo. Nello spionaggio puoi inventare, spaziare nel raccontare senza curarti delle tecniche o degli schemi. Inoltre io lo vivo come una metafora per esplorare i rapporti tra le persone, per indagare le relazioni umane. In questo libro c'è la storia di Milo con la moglie: lui è costretto a mentirle a causa del suo lavoro, mentre nel prossimo libro ribalterò la situazione. Nel creare le situazioni dei miei libri parto sempre da qualcosa di vero, e poi lo adatto alla trama, ma sempre mantenendo un'impronta reale. Per esempio qui c'è un accenno a un accadimento del Sudan: era una notizia che avevo letto su un giornale cinese che parlava di rivolte per destabilizzare il Governo in carica. Da questo ho tratto il personaggio di un estremista, figura marginale in Il turista".

A parte il protagonista, la spia nei tuoi libri è una figura umanamente negativa, in alcuni casi al limite della stupidità o del grossolano. Credi che sia così anche nella realtà?
"Ogni organizzazione ha al suo interno persone più o meno brillanti, e con intelligenze diverse. Quello che mi preme evidenziare è che le organizzazioni come la Cia non sono fatte da individui di una razza superiore, ma da persone come le altre. Spesso ciò che conta sono i loro drammi, dopo i quali vengono il lavoro e il bene comune. Un altro tema che mi affascina, e che attraverso la figura della spia riesco ad esplorare, è il doppio, la differenza tra la vita pubblica e privata. Io stesso, in quanto scrittore, devo decidere come dividermi tra la mia vita pubblica e quella privata, quali limiti porre a una e all'altra. E' un dilemma che mi lacera alla ricerca di un equilibrio. Così Emil Brod, il protagonista de Il ponte dei sospiri, mi assomiglia come persona, mentre Milo rappresenta le mie ossessioni".

Le tre figure femminili del romanzo hanno un impianto mentale molto maschile. E voluto o casuale?
"Sono tre donne ossessive, due nella carriera e la moglie di Milo nella tutela della figlia. Sono donne che devono combattere, ma credo che questa mancanza di femminilità sia una lettura tipicamente italiana. Negli Usa le donne sono molto casual, e in quanto americano io stesso non reputo importante la femminilità, ma piuttosto la praticità. Mia moglie è serba e in questo è molto diversa da me: c'è una grande differenza tra Usa ed Europa su questo tema. Credo che sia una questione culturale, o forse politica legata ad eliminare le disparità. Mia madre, che ha fatto propri i grandi temi del femminismo negli anni Settanta, ha influenzato molto la mia visione di questo concetto, al punto che pensavo che in Italia il femminismo non fosse mai esistito, perché vedevo donne molto attente al loro aspetto e alla cura di se stesse. Invece poi mi sono reso conto che, oltre alla piena consapevolezza dei temi di fondo, hanno una visione molto ampia del femminismo".

I diritti cinematografici del Turista sono stati acquistati dalla "Smokehouse Pictures" di George Clooney, che sarà il protagonista principale e il produttore del film.


domenica 10 maggio 2009

Laurie Anderson: la musica, il teatro, le storie

"Racconto storie vere, storie sul tempo e su come lo viviamo, dove la musica è un supporto al racconto. Un violino, un po' di elettronica, suoni che si fondono, filtri che cambiano le voci". Eccola Laurie Anderson, tornare a raccontarsi quasi trent'anni dopo il minimalismo elettronico di O Superman, successo mondiale del 1981. Stesso taglio di capelli, un volto appena sfiorato dai segni dei suoi 61 anni, la voglia di continuare a raccontare, per dare forma al ricordo che cambia la visione degli accadimenti. Lo farà domani sera al Teatro di Chiasso con lo spettacolo Burning Leaves, una performance che raggruppa vent'anni di storie e canzoni, raccolte nei "solo show" che ha portato in giro per il mondo negli ultimi anni. 



LE GABBIE
"Alcune mie storie nascono dalla noia. Mi sono fatta conoscere per uno stile, e mi veniva chiesto sempre quello. era diventato una trappola, non sapevo più come uscirne. Mi sono isolata dalla tecnologia, prima sono stata in una fattoria, poi ho lavorato da McDonald's a fare panini. Ora racconto quello che ho visto durante quelle esperienze, e come uscire dalle gabbie della vita. Sono storie su come cercare di essere liberi, su come uscire dai limiti che ci poniamo. Non aspettatevi mai che qualcuno vi chieda di fare qualcosa che vi piace, non succederà mai. Inventatevi qualcosa e fatelo da soli: io ho fatto così".

IL MULTIMEDIALE
"Ho voluto essere un'artista perché amavo creare cose, lo volevo fortemente. Quindi ho scelto di lavorare con il multimediale perché non ti pone limiti, sei libero di fare tutto, puoi spaziare dove vuoi: un libro, un disco, una installazione, una musica per orchestra. Il mio spettacolo è tutto software, ma questo ormai non sorprende più: rispetto all'elettronica abbiamo tutti superato l'eccitazione del nuovo".

O SUPERMAN
"Ho vissuto un periodo assurdo. Entravo in una stanza e sentivo gente gridare, chiamarmi. Ho cercato di prenderla con umorismo e vederne gli aspetti antropologici, osservare i comportamenti delle masse. Comunque mi sono divertita molto in quegli anni..." 



LE SHORT STORIES
"Amo le storie brevi, anche quando sono dissimulate in trame più vaste. Come in Moby Dick, per esempio. Mi piace molto saltare tra mondi diversi, non rimanere mai bloccata. Cerco di descrivere accadimenti e trasformarli in storie attraverso una interpretazione che li rende parte di me stessa. La memoria, per esempio, dà sempre un colore diverso".

L'ARTE 
"Non so cos'è. Quella che preferisco è quella che mi parla direttamente. Io stessa cerco di non nascondermi dietro il paravento di essere un'artista all'avanguardia, ma piuttosto mi impegno per esprimere le cose nel modo più chiaro possibile".


Per concludere, l'ultimo tour, Homeland, del 2007.


sabato 9 maggio 2009

Alicia Martin, opere d'arte in libri

Li strappa, li taglia e li buca, li infilza con sbarre di ferro, li imprigiona nel cemento o li adagia su manti erbosi, li salda tra di loro e ne fa gigantesche installazioni che hanno il sapore dell'instabilità, del movimento improvviso, del crollo. Oppure della dispersione. Opere che stimolano la voglia di intervenire per salvare, per raccogliere, per sfogliare quelle pagine destinate ormai ad altro uso. Alicia Martin, classe 1964, vive e lavora a Madrid, ed è considerata una delle autrici più significative dell’arte contemporanea spagnola. I libri per lei sono materia prima e fonte d’ispirazione quasi costante di molti lavori, usati come oggetti d'arte che vanno a formare altri scenari di significato e di immagine. In Italia le sue opere sono esposte alla Galleria Galica di Milano.











giovedì 7 maggio 2009

Elisabetta Bucciarelli, Io ti perdono

Quanto si può perdonare nella vita? E soprattutto, siamo sempre consapevoli di chi attende un nostro gesto, una parola, uno sguardo che liberi dal peso invisibile di una colpa vera o solo percepita? Un tema importante e ingombrante, che rimane spesso irrisolto, che ci lascia quasi sempre il senso di qualcosa che non abbiamo portato fino in fondo. Nel nuovo romanzo di Elisabetta Bucciarelli, Io ti perdono (Colorado Noir Kowalski, 224 pagg. 14 euro, in libreria da oggi), questo stato dell’esistenza domina i passaggi fondamentali di un noir duro e appassionante, che trascina a ritmo incalzante in storie parallele di umane solitudini.
Sapori e scenari diversi: una bambina scomparsa nei boschi della Val d’Aosta, un mucchietto di ossa di donna trovato in un capannone, un giro di sfruttamento della prostituzione. La maternità, voluta e mancata, il desiderio e l’ossessione, la delusione che si fa disperazione. E poi lo stacco, il piano parallelo della vita di questa protagonista ormai seriale, Maria Dolores Vergani, ispettore di polizia ancora una volta al centro dei romanzi della Bucciarelli, che in questo quarto romanzo raggiunge una maturità esistenziale che le dà uno spessore tutto nuovo. Un salto all’indietro nella sua vita fino all’infanzia, e ancora il tentativo di dialogo con gli uomini, altro importante sottotesto del libro: la difficoltà di rapportarsi a una categoria che comunica in modo diverso e spesso non chiaro, che crea alibi dal nulla, che non va a fondo dei bisogni dell’altro, che sfugge e fugge. Un bel libro, da leggere e da pensare.

Perché il perdono come tema forte a questo punto della tua scrittura?
Sto lavorando sul perdono da un po’ di tempo. Scrivo storie nere, mai consolatorie, senza finali chiusi, cercando di guardare il Male anche dalla parte che indubbiamente affascina e attira chi non riesce a sfuggirgli. Cerco di entrare nelle storie nere con l’animo di chi non ha preclusioni e non giudica. Mi avvicino al male e ne percepisco la forza. Spesso lo subisco, come succede a tutti nella vita. E non trovo risposte. Al perché della sua forza e della sua esistenza. Agli atti che induce a compiere. Mi sono chiesta cosa si possa fare per combatterlo, ho dato vita a un personaggio abbastanza forte per contrapporsi senza cedere troppo alle sue lusinghe. E poi ho pensato alle vittime. A chi sono, al loro dolore, a come possano, quelle che sopravvivono e i parenti, superare l’incontro con l’inaspettato orrore che la vita talvolta propone. Forse il perdono è una risposta. Forse può liberare in parte la mente da una trappola che le impedisce di guardare avanti. Non dimentica l’atto, non lo cancella, ma permette a chi l’ha subito di lasciare sullo sfondo chi l’ha compiuto. E’ un gesto di grande generosità. Prevede una totalità e una completezza che l’uomo di per sé non conosce. Una pienezza che è un traguardo, si raggiunge forse, dopo il cammino di una vita. Perciò indago il perdono, quello delle cose grandi, ma anche quello dei gesti piccoli. Quotidiani, che tutti noi abbiamo subito. Abbandoni, tradimenti, menzogne. Per superficialità, ignoranza o semplice cattiveria.

Tra i tanti sottotemi del libro – maternità, prostituzione, rapporti tra uomini e donne, un certo tipo di reminiscenza, indagine e scoperta allo stato puro – quale senti più vicina a te e quale alla tua protagonista?
Ho imparato a dare un nome alle emozioni molto tardi. Dunque il tema che mi sta più a cuore è l’educazione sentimentale delle donne. Cerco di parlare di come siamo in difficoltà a riconoscere i nostri bisogni, le necessità e gli stati d’animo. Capaci di accogliere, rimandare, attendere. Ma quasi mai di chiedere, pretendere, affermare. Se lo facciamo seguiamo ancora modelli rigidi e impostati. Soprattutto con chi non deve per forza amarci. Nel lavoro, nella vita di tutti i giorni. Questo è il tema più vicino a me. La Vergani invece, deve confrontarsi ancora con gli uomini e con la maternità. Per questo cerco di mescolare la sua inadeguatezza alle emozioni, con l’incapacità totale dei maschi “consueti” di essere presenti, trasparenti, sinceri. Di scandagliare le sue paure e le resistenze a fidarsi, a lasciarsi andare, a proporsi. La paura degli uomini di trasferisce immediatamente alle loro compagne. Alle fidanzate, alle mogli. Di questa paura sento sempre più la presenza intorno a me. Paura di rischiare, di rimettersi in gioco, di scoprirsi. Così è il mio personaggio. In Io ti perdono sarà alle prese con tre indagini molto complicate, ma allo stesso tempo con un’identica matrice che declina la paura e il femminile in modi differenti.

Quanta parte ha la solitudine nella vita dei tuoi personaggi?
Maria Dolores Vergani è una donna che conosce molto bene la solitudine. Non la teme, spesso la cerca. La sua è una solitudine molto rumorosa, per citare Hrabal. E’ partita con una squadra anomala, una corte dei miracoli divertente e scombinata, che l’assisteva durante le indagini. Un carnevale di pensieri e di colori. E poi, quasi fosse una metafora di crescita, ha abbandonato il superfluo per strada, con grande gratitudine e un certo sollievo, e ha proseguito appunto, da sola. Sola lei come gli altri. Ma con una pienezza di pensieri, di scoperte e di attese, per qualcosa che possa essere complementare, e che non sani semplicemente delle mancanze che lei si porta dietro dal giorno della sua nascita.

Un po' di musica e una scelta dovuta: lei.


mercoledì 6 maggio 2009

Antonio Gramatica, Digigrafie

Antonio Gramatica
Silenzi d'acqua
Digigrafie
Fino al 22 maggio, Libreria di via Volta, Erba




Digigraphie® , o digigrafia, è un termine che descrive la stampa effettuata con stampanti professionali Epson Stylus Pro con inchiostri UltraChrome™ o UltraChrome™ K3 su carta certificata. Ogni stampa è autenticata imprimendo numero e firma e viene consegnata con un certificato di garanzia. Il vantaggio che Digigraphie® rappresenta per artisti e fotografi è poter controllare in prima persona la qualità della stampa e il numero di copie riprodotte, con la garanzia che ciascun pezzo sarà l’esatta riproduzione dell’originale. La Digigraphie consente infatti agli artisti della fotografia, ai pittori e agli operatori dei musei di tutto il mondo di creare edizioni limitate e certificate dei capolavori originali grazie alla più avanzata tecnologia di stampa Epson, che garantisce qualità e durata eccezionali.


venerdì 1 maggio 2009

La natura senza mani

Lo spunto arriva dal filosofo greco Plotino, che nelle Enneadi afferma che l’unico vero discrimine tra la creazione naturale e quella artistica è che la natura crea senza mani. Partendo da questa affermazione, i quindici artisti della collettiva La natura senza mani, hanno disseminato tra Villa Greppi e il parco botanico altrettante opere scultoree ed installazioni le cui forme assecondano, accompagnano o completano la naturale fisionomia dell’ambiente. Il risultato merita di essere visto, seguendo un percorso che porta anche negli angoli meno accessibili e conosciuti del parco. La mostra rimane allestita fino al 25 maggio, qui tutte le informazioni per visitarla.



Davanti alle scuderie, la scultura di Severino Trinca (Amanti, bronzo), scopre la struttura filiforme di due corpi nell’atto di stringersi, come un sinuoso tronco d’albero. All’interno del granaio si incrociano e interagiscono le due installazioni di Alessandro Di Pietro (Reciproco, collage e inchiostro calligrafico su tela, lana e proiezione di diapositiva) e Valerio Gaeti (Natura dormiente, legno, midollino, carta, cenere e pigmenti). Appena usciti si staglia l’installazione Riverberi di Valdi Spagnulo (acciaio e plexiglas), che ricrea un piccolo bosco artificiale, visitabile come il resto del parco, con venti moduli in acciaio. Appena sotto, nelle grotte sottostanti il granaio, hanno trovato spazio tre installazioni. Elena Modorati (Delle figure e degli sfondi - 5 settembre 1774) parte dal ritrovamento in un mercatino di una coppia di antichi raccoglitori in ferro per i cartellini d’ingresso alla fabbrica, che diventano calendari che mantengono in vita un insieme di gesti di misurazione, conteggio e di scrittura del mondo. Il rapporto organico-inorganico prende forma nell’opera di Giuseppe Vigliotti (Aprile è il mese più crudele, macchine da scrivere, legno e materiali organici), che segna la fine delle macchine da scrivere come strumento di lavoro manuale, ma forse anche della scrittura lenta, ricercata e celebrata. Un concetto in qualche modo legato all’installazione successiva, L’Aleph di Maria Cristina Galli, dove un archivio postale circondato da oggetti quotidiani come fogli do carta, libri, una poltrona in legno, riportano all’attrazione per la parola scritta. Poco più avanti, nell’ultima grotta, Diego Cinquegrana con D.C./M.G._distances, parte dal centro della volta con un mosaico in vetro che riporta a dimensione umana la volta celeste. Salendo verso la villa ci si imbatte in Untitled (After Charles Darwin) di Riccardo Pavanelli: tre “bacini di raccolta”, realizzati in cemento, ferro, acqua e bitume, modellati dall’interazione corrosiva dei materiali con gli agenti atmosferici.


Monumentale, suggestiva, scenografica: è l’opera di Walter Francone, Nel giardino delle idee campate in aria. Dodici elementi in ferro ossidato di 4.40 metri di altezza, intorno ai quali si aggrappano una trentina di sfere di diverso diametro. Pochi metri la separano dall’installazione di Arnaldo Sanna, 392/7 (stampa digitale su alluminio, acciaio e legno): tre pannelli di legno che coprono temporaneamente le porte della Villa, un elemento pre-esistente su cui si arrampicano piccole sculture, il cuore con i suoi movimenti legato da una linfa di metallo che disegna percorsi statici. La freddezza inorganica e geometrica di una delle strutture cubiche fluorescenti di Yari Miele, YM 0409 (fosforo su legno), si inserisce nella morbidezza della chioma di una albero. La textile art di Elena Redaelli (Mutamento continuo, carta, ferro e fili di seta), si prende lo spazio tra i carpini sul retro della villa: le tre strutture centrali, come grandi ali di farfalle, sono circondate da piccole strutture di forma ellittica e materiali variabili, come bozzoli di crisalide. Alberto Gianfreda (Infinite variabili, legno e ferro), segue le mosse di frammenti di legno spinti dalla forza curva di fasce metalliche, dove la forma concentrica e in continua espansione, segue l’andamento curvo della lieve pendenza su cui è installata. Infine Valerio Anceschi (Fiore corallo, ferro saldato), sceglie la mimetizzazione, collocando la sua scultura formata da sottili fili d’acciaio nell’incavo dei rami del centenario cedro del Libano che vigila l’entrata del parco.