domenica 21 novembre 2010

Francesco Piccolo, Momenti di trascurabile felicità

Colazione da Crème, Montorfano (Co)

Adesso dovrò leggere anche gli altri. Perché quando sono arrivata all'ultima riga di Momenti di trascurabile felicità (Einaudi, 134 pagg, 12.50 euro) di Francesco Piccolo, è la prima cosa che ho pensato. L'ho iniziato e finito, un concentrato di un paio d'ore senza interruzione. E' un libro veloce, una carrellata di pagine da una sera, che quasi non stai nemmeno a farci un ragionamento. Agisci solo per simpatia e attrazione. Parte con l'esergo di Goffredo Parise "Non sopporto più le persone che mi annoiano anche pochissimo e mi fanno perdere anche un solo secondo di vita": mi calza alla perfezione, ed è anche coraggioso messo lì, come premessa. Io l'ho letto innanzi tutto perché volevo capire quali erano queste felicità trascurabili, che te le metti via senza nemmeno pensarci, e forse senza accorgertene. Perché a volte sono sfizi, piccole rivincite, soddisfazioni microscopiche, flash di percezione che ti danno un senso inconscio di sicurezza. Qualche cavolata che ti tieni per te senza raccontarla in giro, che tanto agli altri non farebbe lo stesso effetto, e poi sarebbe troppo lunga da far capire. O troppo insignificante per fare la parte di quello che invece un significato glielo dà. Però tutte queste cose esistono, e l'insieme che esce da questo libro è un quotidiano surreale, un po' comico e un po' sciocco, come lo siamo tutti, abbandonati al non senso di alcuni gesti da cui non ci separiamo. Ripetitivi nelle ossessioni che ci danno la certezza di non esserci persi per strada. Ho trovato gesti fotocopia di quelli che faccio io, e allora pensi che lo fanno tutti, e quindi tu non sei nemmeno un millimetro più avanti, ma ti piace lo stesso continuare a pensarlo. Spiare la spesa nei carrelli degli altri e immaginarli dentro casa. Girare a vuoto nelle grandi librerie. Vedere che ogni volta la sbarra del telepass si alza e ti sembra un miracolo. Il sollievo di quando finisce una mostra o uno spettacolo che ti sentivi in dovere di vedere, ma non avevi voglia, e allora non lo puoi più fare e ti autoassolvi.  
Così, mi sono fatta la mia lista di questi momenti.
Quando dico "io in quello schifo di bar non ci vado" perché il cappuccino è una cosa così rinunciabile che se decidi di regalartelo deve essere in un posto bello.
Quando arrivo all'ultima pagina di un libro e penso di non aver buttato via tempo e soldi.
Quando sono nervosa e compro un libro di cucina con foto bellissime per guardare immagini di ricette che non farò mai, ma mi basta già così.
Quando lavo la macchina e vedo che è tornata come nuova.
Quando riesco a non arrivare in ritardo.
Quando ho tempo per non fare niente.
Quando la mia pasticceria inventa un nuovo tipo di cioccolatino.
Quando mi chiedono "ma io cosa ho fatto?" oppure "ma io cosa devo fare?" e vorrei pestarli ma so che anche stavolta non lo farò.
Quando bevo il tè.
Quando faccio ordine e scopro di avere attorno un sacco di spazio di cui mi ero dimenticata.
Quando sul ripiano della libreria c'è ancora un po' di posto per l'ultimo arrivato.
Quando guardo l'estratto conto e non riesce a terrorizzarmi.

lunedì 15 novembre 2010

L'annata migliore


Da cinque anni il Premio Letterario Santa Margherita seleziona i migliori racconti brevi che parlano di vino e cibo. Per loro, oltre al prestigio di essere scelti da una giuria presieduta da Inge Feltrinelli, c'è un divertente valore aggiunto: i tre migliori scritti vengono pubblicati sulle retroetichette delle bottiglie di bianco Santa Margherita. Ogni anno il concorso ha inoltre tre testimonial già affermati, gli "Autori Doc". Per il 2010 sono Dario Voltolini, Giulia Villoresi e Elisabetta Bucciarelli: il suo racconto si intitola L'annata migliore. Lo pubblico per chi non ha fatto in tempo ad accaparrarsi una bottiglia edizione speciale, per chi beve solo rosso e gli astemi.

Le annate fanno bella mostra di sé in ordine rigoroso. Disposte sugli scaffali di legno scuro, ben incerato, con l'etichetta dell'anno incisa su vecchie targhette di peltro. Buone e meno buone. Un centinaio di pezzi per ogni anno. Avrei potuto inserirne anche qualcuno in più, ma ho preferito selezionare. D'altra parte l'offerta è alta e chi arriva fin qui, deve imparare a fidarsi di me. A volte basta un'occhiata, altre invece, devo porre domande. Succede anche di perderci del tempo. Ma è il mio lavoro, non lo scambierei con nessun altro. Spolvero quasi ogni giorno. Tengo tra le mani e rigiro con delicatezza. Lascio nascosti i pezzi più rari. Da quelli non sposto nemmeno la polvere, perché mi pare li protegga e li avvolga. E ne preservi il mistero. Il cliente esigente apprezza se passo il panno morbido davanti ai suoi occhi, mentre con lentezza gli racconto contenuto e contesto. Non miro a convincere ma a proporre. Capita spesso che qualcuno entri di fretta e mi chieda una cosa a caso, gridi un nome, senza sapere davvero quale sia la sua recondita necessità. Non mi scompongo. Lo guardo e lo invito a cercare da sé, certa che non troverà nulla. Non sa l'annata, non conosce lo scaffale. Mi armo di pazienza, lo osservo da tergo e so che il mio bersaglio è il suo temperamento. Sono allenata a osservare. A lungo e a fondo. Se è meditabondo e silenzioso vado diretta al 1960. Ci vuole qualcosa di rivoluzionario e corposo, con profumo e consistenza. Se è triste va bene un pezzo del 2000, frizzante, trasparente, con perlage. Che riempia i sensi e lasci poche tracce. Se prevale una personalità spenta sto attenta anche ai colori. Scelgo qualcosa degli Anni Ottanta, di acceso, intenso e avventuroso. Cerco di capire se ho di fronte un tipo allenato, mettendo alla prova le sue papille gustative. Le mie conserve sott'olio, sul pane ai cereali, sono l'ausilio necessario. Perfette per sublimare il concetto di corpo e colore. Chiedo di assaggiare con la punta della lingua, più sensibile al salato. E poi decido. Ancora ci sono quelli che varcata la soglia, dopo un istante di stupore e meraviglia di fronte all'antro in penombra, afferrano una cosa a caso. Magari sono impegnata con un altro cliente. Non mi accorgo che già sono davanti alla casa e aspettano solo di pagare. Spero, nel mio cuore, che abbiano scelto qualcosa di ordinario. A costoro infatti, mi dispiace consegnare un frammento di esclusivo. L'ultima giacenza, la riserva nell'angolo, quella che vorrei fosse fatta vivere, capita e ricordata dall'intenditore. "Mi dispiace" dico "è già venduto". Riconosco lo sguardo attonito e rapace. Provano con qualcosa d'altro, cercando nei pertugi l'annata lontana, segnalata sulla pagina di un quotidiano magari, senza conoscerne la genesi e le trasformazioni. Non tutto matura come dovrebbe, spesso invecchia soltanto. Cerco di spiegare che con il tempo raramente si affina e si arricchisce il contenuto di una realtà diversa. Poi, d'un tratto, tra l'aggressività riottosa e l'ignoranza si palesa il cercatore, il sapiente. Allora è una danza, io che racconto e lui che va al passo e mi precede, talvolta. Un'appartenenza di amorosi sensi, un canto polifonico di suoni, odori, effervescenze. Mi sento appagata nel cedere il "più prezioso", che sono certa, non ritroverò per molto tempo e forse mai. Faccio appena in tempo a ritrovare il respiro che arriva il procacciatore di novello. L'ultimo nato, sul primo scaffale, appena consegnato, moderno, si direbbe. Cerco di spostare la scelta verso qualcosa che resti nel ricordo. Che tracci una strada, per arrivare lì, al novello. Ma lui lo vuole a tutti i costi del giorno. Che ancora non si è fatto del tutto. Veloce, così come è stato creato. Poco riflessivo. Lo dico sempre, quando guardo i miei libri sugli scaffali, ordinati per annate, rigorosamente in fila. Un buon volume è come un vino buono. Devi conoscere il prima e il dopo, per gustarlo e capirlo e assorbirne gli umori. E non rimanere uguale a come sei, quando è già dentro di te.

sabato 13 novembre 2010

Domingo Villar, La spiaggia degli affogati


Piccole spiagge, un paese che si chiude in pochi scenari, esistenze ancorate a una claustrofobia mentale e ambientale che trattiene tutti legati a un solo luogo e a un accadimento del passato. Pensieri soffocanti, esistenze che da anni fanno i conti con la paura. E' Panxón, località della Galizia dove l'inverno porta l'abbandono e il silenzio. In La spiaggia degli affogati (Kowalski, 450 pagg., 19 euro), l'ispettore di polizia Leo Caldas indaga sulla morte di un pescatore, apparente suicidio, ma in realtà omicidio senza ombra di dubbio, con quelle fascette verdi legate per il verso contrario attorno ai polsi. Arriva da Vigo, dove ha sede il commissariato, preceduto dalla sua fama di speaker radiofonico di una trasmissione in cui i cittadini chiedono giustizia per i piccoli soprusi: un obbligo molto più che un piacere, ma questa è solo una delle tante cose di cui non riesce a liberarsi, e non la più grave. Caldas accantona i pezzi della sua vita, lascia la priorità ai morti ammazzati che lo salvano da tutto il resto, si prende i tempi che gli servono. Aspetta il momento buono, che arriva sempre.
Quella di Domingo Villar è una scrittura limpida e fluida, che si contrappone alla cupezza dei paesaggi e degli animi che racconta. Tutto si muove attraverso sfumature, attente e ragionate, come lo sono le riflessioni sulle parole e sui significati che introducono ogni capitolo. Un rimando che non lascia indifferenti, uno stacco che obbliga a pensare al linguaggio, alle sue suggestioni e ai fraintendimenti. Alle sue generosità e durezze. Un linguaggio con il quale Villar costruisce una storia di inquietudini e prepotenze, disseminata di verità e alleggerita da momenti di ironia molto ben calibrati. Leo Caldas è un bel personaggio, che si ha voglia di trovare da qualche altra parte. Sa andare a fondo di ciò che vede, senza mai scadere nella pesantezza. E' intelligente e sa prendersi le giuste misure, abbastanza da riuscire a convivere con Rafael Estévez, collega dalle reazioni improvvisate e poco ragionate. Vive una sua solitudine che gli permette di comprendere quelle degli altri. Delle vittime, di chi è sopravvissuto. Di suo padre con le vigne e il quaderno degli idioti. Dei criminali, che non sono mai diversi da nessuno.

giovedì 11 novembre 2010

Quando un libro non mi piace

Installazione di Richard Hutten, 2008 
A volte mi basta vedere la copertina per accantonarli. Leggere la quarta e capire che non c'è niente di nuovo, che quella trama non è nelle mie corde, che il numero di pagine è sproporzionato rispetto a ciò che si vuole raccontare. Altre volte abbandono perché con quell'autore ho già dato e mi basta. "Un lettore di professione è in primo luogo chi sa quali libri non leggere" diceva Giorgio Manganelli. Verissimo. Eppure capita di sbagliare valutazione, di leggere attirato da buone intenzioni e promesse, e poi di pensare di aver buttato via del tempo. E quindi l'antipatia che si trascina quel libro, dove lo porta? Può stare lo stesso in libreria tra gli altri? Oppure deve essere regalato? Esistono canali di riciclo dei libri che ci hanno delusi? Ma poi, cos'è che dà più fastidio: la consapevolezza di aver sbagliato valutazione o il tempo sprecato che poteva essere dedicato a qualcosa di meglio?

Alfredo Colitto, scrittore
Quando un libro mi delude, innanzitutto non lo finisco, perché non mi piace perdere tempo a leggere qualcosa che non mi piace. Qualche volta ho buttato dei libri, ma di solito li rispetto troppo, anche quelli brutti. Così di solito li “libero” in qualche luogo di passaggio, sperando che trovino un nuovo padrone che li apprezzerà più di me…

Andrea Fazioli, scrittore
Se un libro mi delude, cerco di non comprarlo. So che può sembrare un paradosso, e sono sicuro che in questo modo passo accanto a numerosi capolavori. Ma con gli anni ho imparato un po’ ad annusare un libro, e riesco a intuire se mi piacerà oppure no. Lo sfoglio, guardo l’inizio, leggiucchio qua e là… magari penso: sicuramente sarà un bel romanzo, ma non fa per me. Qualche volta invece, inevitabilmente, ci casco. In questo caso, devo ammettere che sono spietato: se un libro mi delude, lo butto via. Non ho malanimo, non mi precipito a sconsigliarlo, ma non potrei mai regalare un libro che non mi è piaciuto. Visto che la lettura può essere interrotta (non siamo obbligati a finire i libri brutti!), e che le opinioni sono fatte per essere sbagliate, la cosa che mi dà più fastidio è senz’altro avere speso dei soldi per acquistarlo… Può essere difficile distruggere un libro, cioè un oggetto comunque dotato di una certa nobiltà, ma è necessario (a meno che non si voglia uscire di casa per fare spazio alla carta stampata).  Uno spunto può venire da Pepe Carvalho, l’indimenticabile personaggio creato da Manuel Vazquez Montalban. Carvalho, quando tornava a casa la sera, aveva l’abitudine di bruciare nel caminetto uno dei numerosi libri della sua biblioteca…

Cecilia Scerbanenco, traduttrice
Quando un libro mi delude, lo regalo. Più esattamente, li accumulo e poi, se sono buoni ma non il mio genere, li regalo alla figlia di una mia amica, lettrice affamata, e spesso le chiedo il suo parere. Se sono di un qualche valore. che so, collane, romanzi in serie, li porto in biblioteca e gli chiedo se interessano. Altrimenti, se proprio sono brutti... li infilo, sempre in biblioteca, in una provvidenziale cassettina dei libri "in regalo", da dove chiunque può pescare! Raramente mi capita di sconsigliare un libro: ho dei gusti un po'... da vecchia signora e quello che a me non piace so che magari può piacere tantissimo ad altri. La cosa che mi dà più fastidio è avere sprecato dei soldi e anche essermi sbagliata. Con quel che costano i libri... Sono una sostenitrice degli e-book: se si riuscisse a farli costare poco credo che mi permetterei di sperimentare un po' di più. La cosa peggiore che mi succede è che, quando trovo un libro davvero brutto, me lo dimentico (file erase!): un paio di volte mi è capitato di ricomprarli-rileggerli. Che disgrazia!

Chiara Beretta Mazzotta, editor
Un libro è un cattivo acquisto solo se scritto male, se la storia è orrenda, se i personaggi colano a picco tra le pagine… Insomma, mi comporto con i libri come farebbe con le donne un playboy di bocca buona: quasi sempre, riesco a trovare qualcosa di buono. E se proprio non c’è nulla, un pessimo libro lo porto in agenzia, perché agli autori serve sempre un esempio di cosa non fare. Le delusioni non le sconsiglio, spendo più tempo a consigliare ciò che mi ha convinto e no, non mi curo dell’opinione sbagliata che mi ero fatta. Mi capita pure con le persone e ho imparato a chiudere un occhio… o il libro. 

Dominique Manotti, scrittrice
Quando un libro non mi è piaciuto, lo metto nella mia libreria e lo dimentico. A volte degli amici passano, lo trovano e lo prendono. Ultimamente mi accade spesso - cosa che non facevo quando ero giovane - di chiudere un libro e di abbandonarlo dopo un centinaio di pagine, senza terminarlo. Non sconsiglio un libro, anche se mi ha fatta arrabbiare. Per una questione di stile e per questioni principio. E non regalo mai un libro che non ho apprezzato. Tranne quest'anno: ho traslocato, e sono stata obbligata a sbarazzarmi di cinquemila libri che non potevano trovare posto nel mio nuovo appartamento. Ho passato in rassegna la mia biblioteca, guardato tutto quello che ritenevo avrei voluto far leggere ai miei nipoti, o rileggere io stessa. Ho impiegato molto a decidere di regalare il resto, i libri che non mi sono piaciuti, perché il vero dono è un libro che amiamo... Alla fine un'associazione di carità è venuta a prendersi tutto.

Elisabetta Bucciarelli, scrittrice
Quando un libro non mi piace ci rimango male. Penso di aver perso tempo. E siccome di tempo ne ho poco, mi dimentico presto del libro in questione. Lo emargino in un angolo della libreria e lo seppellisco sotto altri come lui. Presto o tardi si farà di nuovo vivo e allora lo metto nella borsa dell'usato, dove qualcuno proverà a concedergli una seconda possibilità. Che si concede a tutti, nella vita.

Giovanni Choukhadarian, giornalista
Nessun libro mi delude, perché la letteratura non mi illude. Se un libro non mi piace, lo accatasto e dico a tre o quattro persone: "guarda, m'è arrivata 'sta cosa, non m'è piaciuta, la vuoi"? Se la vogliono, gli dò il libro e festa finita. Altrimenti, il libro resta accatastato, fino a che lo metto con altri della catasta in un cartone e finisce vuoi in garage, vuoi nel magazzino di mio fratello.

Jerry Kramsky, scrittore
Se un libro mi delude lo appoggio in libreria assieme agli altri, ma visto che i ripiani stanno debordando, credo che alla prima occasione mi libererò delle pagine traditrici.

Olga Piscitelli, giornalista
Non riesco a trattenermi dal dirlo e/o scriverlo. Un libro brutto, soprattutto se pubblicato in malafede - quindi parlo di quei libri che sono innegabilmente brutti, ma messi lo stesso sul mercato alla ricerca di chissà quale alchimia con il lettore - è molto più che una delusione, è una truffa. L'unica arma del lettore attento è quella di sabotare il meccanismo, quindi basta lanciare non si dice il sabot che non usa più, una scarpina, una ciabattina infradito per fermare le macchine del marketing e limitare i danni delle vendite. La cosa che mi dà più fastidio è l'idea di aver perso tempo a leggere un libro brutto. Se diffondo la notizia che è brutto, recupero quel tempo, perché lo impiego e così non si butta via niente.


domenica 7 novembre 2010

Felice Cimatti, Senza Colpa

Milano, Museo di Storia Naturale
Basterebbe la storia a rendere coinvolgente e inquietante questa lettura, ma Senza colpa di Felice Cimatti (Marcos y Marcos, 158 pagg, 14 euro), è soprattutto una metafora che impone qualche riflessione. Per chi a lungo, come Cimatti, ha studiato il linguaggio degli animali e le possibilità di interazione con la comunicazione umana, ciò che accade nel laboratorio-bunker dal quale scompare lo scienziato John Sauvage non può rimanere confinato al solo mondo animale. Anche se parliamo di scimmie - vale a dire la specie che più di ogni altra si è evoluta nella stessa direzione dell'uomo, anche dal punto di vista emotivo - fin dall'inizio c'è qualcosa che sconfina, che va oltre, nei racconti di questi animali fatti da chi li accudisce, e nelle descrizioni dei loro comportamenti. Gli esperimenti di Sauvage ricordano molto qualcosa realizzato anche con gli umani: simulazioni in cattività per esasperare e studiare l'attitudine alla violenza, mettendo a stretto contatto finti carcerieri e reclusi, quel tanto che basta per dimostrare come i freni inibitori, quando c'è di mezzo l'ambizione alla sopraffazione, sono molto semplici da abbattere. Succede anche qui, tra i primati diventati di proprietà di un laboratorio, che molto ipocritamente si chiama "Centro per lo studio della coscienza animale", dove avvengono sperimentazioni finanziate dal Ministero della Difesa americano. 
L'ispettore Mark Soul è consapevole di non essere acuto né colto, vive di momenti di disagio in mezzo a tutti gli uomini e donne di scienza che popolano il laboratorio, ma per chiudere l'indagine non gli servono grandi armi. Capisce presto che ascoltare è più importante che parlare, e che per smuovere le coscienze a volte bastano piccole azioni. Un noir "etologico" che prende le distanze dal già visto, e che si legge con grande piacere. 

venerdì 5 novembre 2010

Miniartextil

Carole Simard Laflamme, La robe des nations (6.000 abiti/semi in tessuti multietnici).
Installazione realizzata per l'Unesco
Mi appassiona, mi diverte, rimane tra i miei ricordi, perché ogni anno Miniartextil per me è un momento di distacco da tutto. Anche solo mezz'ora, il tempo di osservare le opere e le installazioni dell'ex chiesa di San Francesco prima di infilarmi al lavoro. Quest'anno la mostra ideata da Nazzarena Bortolaso e Mimmo Totaro celebra la ventesima edizione, dal titolo Un giorno di felicità, in omaggio all'opera di Isaac B. Singer, scrittore polacco Premio Nobel per la Letteratura nel 1978, autore di un racconto in cui la luce irrompe ad alleggerire i momenti più difficili. Ad ogni edizione trovo qualcosa su cui riflettere, con il bello di rimanere colpiti da un'immagine. Ormai ho visto centinaia di opere di arte tessile, e ogni anno mi chiedo chi sarà l'artista che saprà andare oltre le aspettative. Quello che mi farà scattare l'ammirazione, sicura di poterne scegliere uno su tutti. Mi guardo attorno e cerco la trasformazione di un materiale come non mi aspettavo, un'immagine a cui ripenserò di tanto in tanto. Qualcosa di semplice ma con una grande forza.

Da sinistra in alto Raffaele Penna, Il grande volo (Carta catramata, ovatta sintetica, lana),
Anila Rubiku, One night only (300 forme di differenti città, suoni e video),
Anna Ray, Knot (cotone e poliestere)
Nobuko Ueda, Performance (baco da seta, filo d'argento)
Ci sono i minitessili, cuore della mostra, trenta centimetri di lato riuniti al centro del percorso espositivo. E poi ci sono le installazioni. Il tratto comune è l'uso di fibre e oggetti che arrivano dalla natura, ma anche un solo filo di cotone, può assumere centinaia di vesti. Fibre di ogni genere, carta, seta, piume, ovatta, legno inchiostri, tessuto e fili di ogni colore e forma, metalli, cenere, aghi di pino, crini di cavallo e intestini di animali essiccati e resi impalpabili, garze e polistirolo, vetro, cotone e piume d'uccello. Qualche artista cerca di valorizzare la bellezza del materiale che ha privilegiato, altri cercano di raccontare una storia, rincorrono un simbolo. Negli anni ho visto migliaia di spilli sospesi in aria assumere una forma indimenticabile, e intrecci preziosi e certosini. Opere nate in questo spazio con lunghissime ore di lavoro e pazienza, e poi distrutte perché troppo delicate per essere trasportate.

Da sinistra in alto Ana Zlatkes, Amor (nylon e legno)
Rosalba Mitaritonna-Tana, ...nell'anno della tigre (carta, fibra di agave, canne)
Milena Anna Korczak, Exuberant enjoyement of life (tela, cotone lino)
Hélène Genvrin e Dario Zeruto, Cascada (550 fogli di carta di cotone fatta a mano, fili di carta di koro)
Quest'anno sono 54 i minitessili in mostra a San Francesco fino a metà novembre, a cui si aggiungono venti installazioni. Miniartextil è anche un percorso per la città di Como: alla Camera di Commercio con l'opera di Onoyama Kazuyo, al Museo Didattico della Seta con altre sei installazioni, tra cui le garze tinte di Anna Moro-Lin e le sfere di tessuto di Anna Pontel, poi i tappeti berberi esposti al Museo Archeologico e l'installazione di Antonio Noia in biblioteca.

Giusy Marchetti, Mi ritorni in mente (Fiat 500 del 1970 ricoperta di fili di lana
lavorati all'uncinetto a punto basso)
Da sinistra Nesem Hartan, Flame (lana, filo di ferro),
Helena Santos, The happiness carpet (carta, cotone, fili, colla, perline d'oro)
Il luogo che da sempre ospita questa mostra aggiunge molta magia ai momenti passati tra le opere d'arte, impone la lentezza del ritmo con cui si scivola in mezzo alle creazioni, tra osservazione di un piccolissimo particolare e la visione d'insieme che offre la navata centrale. Miniartextil è una bella mostra, ma anche un momento in cui si sta bene.